Giovedì 2 Maggio 2024

Il marmo e la furia: Michelangelo non ebbe Pietà

Il restauro del capolavoro a Firenze svela i segreti dell’opera: la materia era difettosa, l’anziano maestro, arrabbiato, l’abbandonò

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di Olga

Mugnaini

Eliminate le patine ambrate che da decenni velavano il marmo, tutto il vigore ma anche la delicatezza dello scalpello di Michelangelo sono tornati chiari, leggibili, emozionanti. Dalle parti più modellate e rifinite in ogni dettaglio, alla ruvidezza della materia lasciata alla maniera del “non finito“, sembra che la pìetas per quel Cristo deposto, avvolga l’intero gruppo ai piedi della croce: Maria, la Maddalena e Nicodemo, in cui il Buonarroti ha scolpito il suo ritratto di uomo anziano e addolorato.

Ci sono voluti quasi due anni per terminare il restauro della Pietà Bandini, custodita nel museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore a Firenze, su quello che forse è l’ultimo pezzo di marmo su cui Michelangelo abbia messo le mani. L’intervento, finanziato dai Friends of Florence e forse il primo vero restauro su questa Pietà, ha permesso di scoprire nuove “impronte“ dell’artista sul monumento, che adesso ha recuperato plasticità e candore. Nel corso del cantiere si è riusciti inoltre a scoprire e raccontare storie inedite su questo blocco di marmo “non perfetto“ e non di Carrara, ma di Seravezza.

"Una scoperta significativa perché le cave di Seravezza erano di proprietà medicea e Giovanni de’ Medici, futuro Papa Leone X, aveva ordinato a Michelangelo di utilizzarne i marmi per la facciata della chiesa di San Lorenzo a Firenze – spiega la restauratrice Paola Rosa – e di aprire una strada per trasportarli al mare. Come mai questo enorme blocco di marmo fosse nelle disponibilità di Michelangelo a Roma, quando scolpisce la Pietà tra il 1547 e il 1555, rimane però un mistero. Sappiamo anche che Michelangelo non era soddisfatto della qualità di questi marmi perché presentavano venature impreviste e microfratture difficili da individuare dall’esterno".

Col restauro infatti è stato possibile confermare, per la prima volta, che il marmo utilizzato per la Pietà era effettivamente difettoso, come racconta anche il Vasari nelle Vite, descrivendolo "duro, pieno d’impurezze e che faceva fuoco" a ogni colpo di scalpello. Non a caso sono emerse tante piccole inclusioni di pirite, che colpite con lo scalpello avranno certamente fatto scintille.

Ma Michelangelo si era arrabbiato soprattutto per la presenza di numerose microfratture. In particolare una sulla base, che appare sia davanti sia dietro, fa ipotizzare che abbia causato non pochi problemi nel modellare il braccio sinistro di Cristo e quello della Vergine. Tanto da costringere il Buonarroti ad abbandonare l’opera. E chissà con quale furia.

"È ipotesi più credibile quella di un Michelangelo che oramai anziano, scontento del risultato – prosegue il direttore del Museo dell’Opera, Timothy Verdon –, abbia tentato in un momento di sconforto di distruggere la scultura a martellate, anche se durante il restauro non se sono state individuate tracce, a meno che l’artista e restauratore dell’epoca Tiberio Calcagni non ne abbia cancellato i segni".

La Pietà dell’Opera del Duomo di Firenze, carica di vissuto e sofferenza, è una delle tre realizzate da Michelangelo nel corso della sua vita: la prima, quella vaticana, con la delicatissima e giovanissima Maria (1497-1499); la seconda, la Pietà Rondanini (1552-1553) del Castello Sforzesco a Milano. E la terza, la Pietà Bandini, affrontata quando aveva circa settantacinque anni.

Risulta che Michelangelo non l’abbia mai terminata, donando il blocco di marmo ampiamente lavorato al suo servitore Antonio da Casteldurante che, dopo averla fatta restaurare da Tiberio Calcagni, la vende al banchiere Francesco Bandini per 200 scudi. L’opera – un solo blocco con quattro figure, alto 2 metri e 25 centimetri, del peso di circa 2.700 chilogrammi –, resterà a lungo nel giardino della sua villa romana a Montecavallo, fino a quando nel 1649, gli eredi Bandini vendono la Pietà al cardinale Luigi Capponi che la porterà nel suo palazzo a Montecitorio a Roma e poi nel Palazzo Rusticucci Accoramboni. Ed è da qui che sarà venduta a Cosimo III de Medici, Granduca di Toscana, e spedita a Firenze dal porto di Civitavecchia, raggiungendo Livorno, e da lì, lungo l’Arno, portata in città.

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