Venerdì 19 Aprile 2024

Il Duce e Bombacci, ribelli in camicia nera

Le vite parallele di Mussolini e del “Lenin di Romagna“: amici e rivoluzionari in gioventù, poi insieme nel fascismo fino a Piazzale Loreto

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di Beppe

Boni

Sono trascorsi cento anni meno qualche giorno da quando a Livorno vide la luce il Partito comunista, mentre nella turbolenza italiana del primo dopoguerra, quasi due anni prima (1919), erano già nati i Fasci di combattimento. Dentro queste due svolte ci sono altrettante vite parallele, e nello stesso tempo opposte, di due personaggi che hanno percorso l’intera esistenza all’insegna degli eccessi. Stessa terra madre, stessi ideali primigeni, stesso percorso di scelte controverse, battaglie su sponde opposte e alleanze prima sottotraccia e poi alla luce del sole, fino alla condivisione della morte. Amici e nemici, ma uniti fino alla fine.

La storia straordinaria di Nicola Bombacci, fondatore del Partito comunista, conosciuto come il Lenin di Romagna e Benito Mussolini, duce del fascismo, poteva essere interpretata solo da due romagnoli come loro, con stesse origini socialiste. Il 21 gennaio 1921, nell’ultimo giorno del XVII congresso del Partito Socialista Italiano che si svolgeva al teatro Carlo Goldoni di Livorno, una nutrita rappresentanza di delegati guidati da Amadeo Bordiga, Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Angelo Tasca, Anselmo Marabini, Antonio Graziadei e Nicola Bombacci, abbandonò la sala e proclamò la nascita del Partito Comunista d’Italia aderente alla III Internazionale, nota come Comintern. Questa data sancì anche il divorzio politico fra due romagnoli dal sangue caldo che dopo essere cresciuti insieme, perfino nella stessa scuola, l’istituto magistrale di Forlimpopoli Regia scuola Normale, diventarono avversari feroci per molti anni, anche se dietro le quinte restò un’amicizia complice. L’uno e l’altro non potevano ostentarla, ma il legame della stessa terra, l’uno di Civitella e l’altro di Predappio, fu più forte della battaglia politica condotta da sponde opposte.

Entrambi erano focosi e controversi, capaci di parabole incredibili: Bombacci, di ideali socialisti, fonda il partito comunista e muore nella Repubblica sociale accanto a Mussolini; il duce degli italiani nasce socialista e diventa il leader del fascismo. Il romanzone, personale e politico, di questi due romagnoli riaffiora nell’ultimo libro dedicato a loro, Mussolini Bombacci, compagni di una vita (Minerva Edizioni), scritto da altri due romagnoli di Forlì, Alberto e Giancarlo Mazzuca, fratelli entrambi giornalisti e scrittori. Tutto, o quasi, in famiglia.

Bombacci, che di nascosto fu anche aiutato economicamente dal Duce quando scivolò in miseria e in disgrazia anche nella sua parrocchia politica, aprì un dialogo con il leader del fascismo subito dopo la marcia su Roma (ottobre 1922) e convinse Mussolini a riconoscere ufficialmente l’Unione sovietica. E l’Italia fu la prima nazione al mondo.

Quei due romagnoli testardi da sponde opposte e poi unite avevano un chiodo fisso: fare la rivoluzione contro il grande capitale. E Mussolini volle l’amico d’infanzia accanto a sé durante i mesi turbolenti di Salò. Fu qui che Nicolino, vecchio socialista nel cuore e nella mente, contribuì alla stesura del Manifesto di Verona ed ebbe un ruolo primario nella grande utopia della Rsi, la socializzazione delle imprese. Il “comunista in camicia nera“ godeva ancora di un certo credito presso le masse. Nel marzo 1945 col suo comizio di Genova portò in piazza trentamila operai, rivendicò i propri ideali socialisti, denunciò il grande inganno del bolscevismo, chiamò all’unità il popolo per realizzare un nuovo stato proletario mussoliniano.

Una vita, quella di Bombacci e Mussolini, come sottolineano i fratelli Mazzuca, piena di coincidenze a cominciare dalla stessa scuola, dall’impegno politico di entrambi fin dal 1910, l’uno a Cesena e l’altro a Forlì, gemelli diversi di un socialismo bonario (Nicolino) e tumultuoso fatto di scontri e violenza (Benito). Poi è finita come sappiamo, col sangue romagnolo riunito nell’ultima fermata, senza biglietto di ritorno, a Piazzale Loreto. Al collo di Nicolino i partigiani appesero un cartello: il super traditore.

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