Venerdì 26 Aprile 2024

Il “corpo a corpo“ di Covacich: "Kafka ci parla e ci scuote ancora"

Quasi un pamphlet sullo scrittore praghese: "Impossibile leggerlo in pace, la poltrona è sempre elettrificata"

Il “corpo a corpo“ di Covacich: "Kafka ci parla e ci scuote ancora"

Il “corpo a corpo“ di Covacich: "Kafka ci parla e ci scuote ancora"

Franz Kafka, neolaureato, fece domanda d’assunzione alle Assicurazioni Generali e approdò – ventiquattrenne – a Trieste, sede centrale della compagnia allora asburgica. Era il 1907. Franz passò tre mesi in città, oberato di lavoro e colmo di delusione; ebbe forse solo il tempo di frequentare osterie e bordelli, tanto che Mauro Covacich immagina che abbia incontrato James Joyce, triestino d’adozione, al “Metro cubo“, il bordello preferito dallo scrittore irlandese. Joyce e Kafka, oltre a Italo Svevo, sono grandi passioni di Covacich, scrittore triestino ormai residente altrove, ma fatalmente legato al mondo, e al mito, della città giuliana. A Joyce e Svevo ha dedicato monologhi teatrali, ora tocca allo scrittore praghese, ma con un piccolo libro – "un corpo a corpo" – che è quasi un pamphlet: Kafka, da oggi in libreria per La nave di Teseo.

Covacich, perché Kafka?

"Kafka è uno dei miei amici più antichi. L’ho incontrato a 17 anni, leggendo Il castello, e non ho mai smesso di seguirlo, come si segue il proprio eroe". Che cosa ha da dirci Kafka nel 2024?

"Moltissimo. Al di là della meraviglia che ogni lettore può provare avvicinandosi ai suoi racconti e ai suoi romanzi, così strani, assurdi e allo stesso tempo vicinissimi a noi, Kafka ci insegna che la lettura di un libro è sempre utile se questo libro provoca in noi una scossa, ci mette a disagio, ci spiazza. A vent’anni scrisse: “Un libro dev’essere l’ascia per il mare ghiacciato dentro di noi“. La letteratura non può essere compiacimento onanistico, o narrazione asservita all’intrattenimento, quindi al mercato: questo insegna Kafka".

Parlando del racconto Il digiunatore, lei dice che il protagonista è il "primo oppositore al consumismo". Possiamo leggere Kafka in chiave politica?

"La vicenda de Il digiunatore può sembrare superficiale, ma è molto profonda. Va nella direzione opposta alla narrativa di intrattenimento. Con Kafka è impossibile mettersi in poltrona a leggere in santa pace; la poltrona è sempre elettrificata. E infatti il digiunatore, visto oggi, è l’araldo di quelli che boicottano e lottano contro un sistema in cui il cibo è onnipresente. Ricette, cuochi, fornelli oggi sono dappertutto, in ogni canale tv: sono sia business che intrattenimento e viene voglia, appunto, di digiunare, come forma di ribellione. Uno dei tratti del capitalismo odierno non è tanto la sua capacità di dominarci, ma di sedurci, e questo meccanismo può essere smascherato. È solo un esempio; il punto è che Kafka ci propone un modello di letteratura intransigente, che risveglia il lettore".

Da noi Kafka è “lo scrittore dell’assurdo“, lei dice che nell’est europeo i suoi libri erano considerati realisti. Chi ha ragione?

"Erano Kundera e Havel a dire di avere sempre letto Kafka in chiave realistica. Credo che la diversità di lettura attenga alle differenze storico-culturali. Sotto i regimi totalitari le popolazioni hanno fatto esperienze di estraneità al potere, di persecuzione, di scontro con la burocrazia, perciò i racconti di Kafka parevano verosimili, mentre noi li consideravamo letteratura dell’assurdo. Se però penso a Paolo Villaggio, al personaggio di Fantozzi, a certi rapporti con la burocrazia, a certe relazioni di potere sui luoghi di lavoro, all’ipocrisia dell’impiegato medio, ecco che il grottesco non è poi così lontano nemmeno dalla nostra esperienza".

Perché accosta Il castello al corpo?

"A un certo punto questa cosa mi è parsa autoevidente. Kafka arriva in un luogo che lo respinge, ma ritiene di avere diritto di accedervi e quindi insiste, ma viene rifiutato, boicottato, allontanato. A me sembra una metafora del corpo, nel senso che il corpo è la cosa più nostra che abbiamo, ma in realtà non ci appartiene, tanto che a un certo punto ci abbandona e così moriamo. Siamo i legittimi cittadini del corpo ma non ne possediamo le chiavi, un po’ come accade a K. E allo stesso Kafka, che ha vissuto un profondo senso di non appartenenza: alla famiglia, all’ebraismo, alla sua città, alle sue donne, perfino alla lingua, visto che scrisse in tedesco ma normalmente parlava il ceco e un dialetto yiddish".

Lei dice che il tema del Processo è “l’irreparabile colpevolezza d’essere nati“. Non si rischia il nichilismo?

"Creando umilmente un neologismo, io parlo di ebreità del vivente, l’idea che tutti noi che veniamo al mondo, umani e no, nasciamo con la colpa d’essere nati, una colpa che precede il peccato originale delle religioni, e forse è per questo che poi moriamo. Il messaggio di Kafka non è nichilista. In un aforisma lui dice: nello scontro fra te e il mondo, asseconda il mondo. È un sentimento che spinge alla solidarietà fra viventi".

Chiude il libro scrivendo che “il mondo è kafkiano o non è“. E aggiunge un lungo elenco di “kafkiani“, da Elias Canetti a Andy Warhol e Greta Thunberg e tanti altri. Perché?

"Perché non è Kafka a raccontare il mondo in modo assurdo, semmai siamo noi che tentiamo di oscurare a noi stessi l’assurdità angosciante della vita. Quanto ai “kafkiani“, ho voluto chiudere un po’ in levare: sono personaggi, autori, persone le cui vicende, in vario modo, mi ricordano Kafka. Beato Angelico, per fare un esempio, è un pittore che aveva in sé qualcosa di kafkiano, per quanto era estraneo al contesto del suo tempo, e non smette di stupirci".

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