Domenica 6 Ottobre 2024
Silvia Antenucci
Libri

Premio Strega 2024, Dario Voltolini: “Racconto le ferite di mio padre”

L’autore di ‘Invernale’ è candidato nella dozzina del Premio Strega

Dario Voltolini

Dario Voltolini

Dario Voltolini racconta il romanzo che l’ha portato nella dozzina del Premio Strega 2024: “Invernale”, quando l’attesa apre orizzonti e la scrittura li abita. Dal tema della perdita al dibattito sull’intelligenza artificiale passando per l’evoluzione della scrittura e la sfida lanciata ai lettori vegani. La carne si taglia, si ammala, spezza esistenze e al contempo apre orizzonti di senso nel romanzo “Invernale” (La nave di Teseo) di Dario Voltolini, torinese, 65 anni, tra i dodici candidati al Premio Strega 2024 con il racconto dell’ultimo periodo della vita del padre Gino, uomo taciturno, dedito al lavoro di macellaio, a filastrocche giocose che, un giorno, viene colpito da una malattia mortale. La carne di Gino, quella lavorata in negozio e quella che lui abita ma anche quella fresca da comprare o consumata dalla malattia da lasciar andare, è al centro della storia. Nutrimento di vita o veicolo di morte come nel caso del batterio che, da un pezzo di carne macellata, entra nel corpo di Gino attraverso un taglio in un dito.

La storia narrata dallo scrittore tra i fondatori di Nazione Indiana, oggi docente alla Scuola Holden e curatore della collana di narrativa italiana Pennisole per Hopefulmonster Editore, è il racconto chirurgico e senza divagazioni di una perdita pervasa di attesa e scoperte, rispetto dei dettagli e dei rapporti. Come spiega lo scrittore, "ho raccontato non la malattia e la morte ma un pezzo della vita di mio padre, in un momento che fu fondamentale per lui e per me. Mi viene in mente Andrea Canobbio, che nel romanzo ‘La traversata notturna’ raccontò la depressione del padre ma, grazie a un montaggio geniale, lo fece parlando delle lettere d’amore tra lui e la madre. Il lettore si trova così a leggere una storia che finisce male ma un racconto che finisce bene. Questo per dire che raccontare la morte può anche significare narrare la vita”.

C’è una frase nel libro che sembra parli non solo dell’esperienza che sta vivendo Dario, figlio di Gino e narratore della storia, ma anche della sua scrittura: "Mi sentivo come dentro un acquario”. La narrazione trasmette una sensazione di rarefazione della realtà, come se fosse fuori fuoco e soggetta a ondate di vertigine.

“Ho scritto di mio padre a distanza di quarant’anni dalla sua morte non per elaborare il lutto o decidermi a raccontare la sua storia, ma perché tanti sono gli anni che mi sono serviti per mettere a punto lo strumento. Per questo ‘Invernale’ l’ho composto in poco tempo, senza riscrittura e in un periodo definito: nel 2022 ho iniziato il 2 giugno, giorno del compleanno di mio padre, e ho finito il 24 luglio, giorno della sua morte”.

Talento, mestiere?

“Direi decenni di lavoro e di evoluzione della scrittura che deve molto al confronto e al supporto di voci contemporanee importanti come quella di Tiziano Scarpa, Antonio Moresco, Andrea Canobbio, Davide Longo, Gherardo Bortolotti. Fare squadra, non sentirsi soli è importante per chi scrive".

Nel libro si percepisce la sensazione dell’attesa.

"In alcune esperienze il tempo perde le sue connotazioni, si scompagina e diventa attesa che tuttavia, se porta a un evento terribile, apre spazi inediti a cose che altrimenti sarebbero rimaste nascoste, forse per sempre. La figura di mio padre si è arricchita quando ha dovuto prendere coscienza di ciò che capitava, è passato da essere uomo d’azione ad artefice di meditazione”.

Una componente ricorrente di Invernale, già dal titolo e fino al gelo che il figlio prova nel momento della morte del padre, è il freddo.

"Il sangue degli animali che mio padre macellava era freddo, l’inverno della perdita è glaciale. Inoltre, e la cosa all’epoca mi colpì molto, io provai davvero una sensazione di gelo addosso nel momento esatto in cui mio padre morì. Eravamo distanti migliaia di chilometri, era un’estate torrida come poche eppure io fui invaso, sopraffatto da una sensazione fortissima di freddo. E’ un mistero che non so spiegarmi”.

Gelo che, con le parole di suo nonno che le fa notare che lei non era con lui in quel momento cruciale, si trasforma in blocco di ghiaccio che rischia di farla affondare.

"Anche quando si fa tutto il possibile, Il senso di colpa è presente in queste situazioni. Il mio era enorme, insostenibile, credo mi avrebbe sbriciolato se non fosse stato per le due parole ‘Salutatemi Dario’, dette da mio padre sul punto di morte. Quelle due parole sono ciò che mi ha permesso di sopravvivere”.

Le parole salvano?

"Le parole salvano e condannano, innalzano e uccidono. In quel caso non mi hanno salvato ma sono riuscito a rimanere vivo”.

Nel romanzo emergono i legami di sangue. Quelli che sono famiglia, come nel rapporto tra padre e figlio, e quelli che sono condanna, come per il batterio che si insinua nel corpo del padre durante il lavoro.

"Ideologicamente i legami di sangue non dovrebbero determinare la vita sociale, ritengo questo vincolo sopravvalutato in quanto esistono relazioni potentissime a prescindere da esso. Il rapporto tra genitore e figli rimane tuttavia fondante, proprio a livello genealogico: se lui non ci fosse stato non ci sarei stato nemmeno io. Il sangue esiste, possiamo allontanarci ma non rimuoverlo”.

Suo padre scriveva?

"Filastrocche che utilizzava per il negozio. Una volta fece stampare delle frasi che facevano rima con Voltolini sui sacchetti della macelleria. Era un uomo taciturno, preso dal lavoro come erano tutti in quegli anni. A pensarci bene quella generazione intermedia, tra la povertà del dopoguerra e il benessere dei decenni successivi, fu eroica: lavorava per far studiare i figli affidando quindi allo studio la vita dei figli, il loro futuro”.

Pensa che la letteratura abbia il potere di lenire, o almeno recuperare ciò che si è perso?

"La letteratura ha grandi poteri: riempire i vuoti, e non solo quelli della perdita, aprire degli orizzonti inaspettati e prefigurare spazi che non si sapeva nemmeno potessero esistere. Mario Vargas Llosa ha detto una cosa molto importante: una vita sola è troppo poca, scrivere permette di moltiplicare le nostre esistenze”.

Quale è lo stato di salute della narrativa italiana?

"Anche se si sente sempre dire il contrario per un mero pregiudizio acritico, credo stia vivendo un ottimo momento, con picchi di qualità soprattutto a opera di donne. Penso a Marta Cai, Gilda Policastro, Claudia Petrucci, giusto per citarne alcune. Prima del lockdown credevo che la scrittura non fosse né maschile né femminile. Poi, complici tutti quei mesi passati in casa a leggere manoscritti, ho scoperto delle differenze. Oggi si fanno cose incredibili con la scrittura, tuttavia la spinta alla ricerca, il vento della libertà, l’apertura di nuovi spazi lo sento solo nelle donne. Ho la sensazione che gli uomini continuino a ridipingere la stessa stanza mentre le donne siano uscite di casa a vedere il mare”.

A proposito di cose incredibili che si possono fare con la scrittura, cosa pensa dell’intelligenza artificiale applicata alla narrazione?

"Credo che l’intelligenza artificiale sia fenomenale per la prontezza della risposta. Come sfida teorica, con un algoritmo così potente e strutturato, sarà interessante vedere se può agire nel campo della creatività e non della mera combinazione e riproduzione. L’ho provata due anni fa chiedendo cosa pensasse Voltaire di Marie Arouet e la risposta fu molto divertente”.

Ha pensato che dettagliare così tanto la lavorazione della carne avrebbe potuto irritare lettori vegani e vegetariani?

“Me l’ha detto anche mia figlia, ma non credo stia accadendo, anzi. L’altro giorno Chiara Valerio mi ha mandato un messaggio di apprezzamento del libro che si concludeva con: ‘Non entrerò mai più in una macelleria’. Forse sto facendo bene alla causa”.