Mercoledì 24 Aprile 2024

Ecco a voi il Digiunatore, supereroe d’altri tempi

Restava senza cibo anche per 40 giorni, divenne una star internazionale ma finì in manicomio. La vita di Giovanni Succi da Cesenatico è un romanzo

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di Chiara Di Clemente

"Grazie al fatto che alcuni lo credevano un imbroglione, il suo successo fu enorme". Eccolo qui lo spirito del Novecento: il fenomeno da baraccone. Veniamo da quegli esseri laceri, malridotti ma probabilmene immortali che nella fine dell’800 arrivavano in paese, su carri traballanti: uomini forzuti, donne magiche. Esseri un po’ falsi ma anche un po’ veri, le cui ombre si proiettano vivide fino a noi.

È il baraccone lo spirito del Novecento. Prima di Spider-Man c’è stato Lion Boy: altro che ragno, il supereroe in cui gli americani riconobbero lo spirito del leone aveva il superpotere di digiunare fino a 40 giorni, e forse oltre. E il bello è che non era neanche uno yankee, men che meno un fumetto. Era un uomo di Cesenatico, nato nel 1850, tuttora ricordato da una via nella sua città come "Giovanni Succi, benefattore" e adesso dal nuovo libro di Enzo Fileno Carabba edito da Ponte alle Grazie. Giovanni fu il più grande digiunatore di tutti i tempi. Né macilento né ascetico "ma con la tempra del grande mangiatore, megalomane e generoso: il digiuno lo riempiva di forza e di allegria". Di bontà. Girò il mondo intero.

Durante il suo primo viaggio in Africa, intrapreso da giovanissimo, apprese l’arte del digiuno da uno stregone che, insegnandogliela, lo guarì da un’oscura malattia; tornato in Egitto da star, soggiornò da “fenomeno“ in un hotel in cui fece amicizia con l’esploratore Stanley (quello del "dottor Livingstone, suppongo") e scalò a piedi una piramide e il monte Akata, suggerendo l’idea di grandi gare a un ragazzo che lo stava inseguendo: de Coubertin. A Parigi ripetè la scalata a piedi, stavolta sulla Tour Eiffel appena inaugurata. A Milano, quando andò per la prima volta alla Scala, l’opera – che l’affascinò all’inverosimile – venne interrotta dai cantanti alla notizia che egli era in sala e il compositore che la firmava volle dunque conoscerlo: era Giuseppe Verdi, che folgorato dall’incontro pensò di scrivere un melodramma sul Succi e che in punto di morte pronunciò misteriose ma definitive parole ("Bottone più, bottone meno") ispirate – pare – a lui.

A Torino nel 1898 conobbe Salgari che ne parlò nel romanzo La montagna di luce; in Maremma fu l’incontro con Buffalo Bill a convincerlo a intraprendere una tournée negli Usa, quella in cui venne ribattezzato dagli americani Lion Boy; la sua esibizione del 1910 a Praga ispirò a Kafka, lì presente, il racconto Un artista del digiuno e nello stesso anno quella a Bologna, al Cinematografo della Borsa, avvenne dinnanzi a Mélies che già anni prima gli aveva dedicato un cortometraggio. Quando a un certo punto della sua esistenza si era ritrovato vicino casa, a Forlì, tra i militanti del partito Rivoluzionario Socialista di Romagna (fondato nel 1881), e si era convinto a mettere la propria arte al servizio della causa ("insegnare la capacità di diventare invincibili digiunando", "avrebbe liberato le masse mondiali affamate affamandole ancora di più") ebbe l’intuizione di suggerire "un gruppo ristretto" alla guida dei tanti circoli già allora in contrasto tra loro, intuizione che gli fu poi copiata da Lenin. Mentre la ricetta dell’elisir che Succi assumeva prima di ogni digiuno – e che gli era stata consegnata dallo stregone africano – avrebbe dato vita alla Coca-Cola.

Tutto vero, tutto falso? Succi ragazzino fu folgorato a fine ’800, a Cesenatico, dall’uomo più forte del mondo che si sdraiava in terra e si faceva salire sulla pancia i bambini urlando "non mi basta", dall’uomo cavallo senza milza che correva più veloce di tutti. Che spettacolo. Freaks esotici e sovrumani, come sarebbe stato Zampanò: gigante miserabile col potere di attrarre a sé, lungo la strada della desolazione, il Matto e Gelsomina, saltimbanchi rattoppati capaci però – solo loro – di riconoscere chiuso in un inutile sassetto l’intero senso delle stelle, della vita. Nel suo libro Carabba racconta Il digiunatore sia attraverso gli incontri straordinari e le mirabolanti avventure, sia attraverso i ricoveri nel manicomio della Lungara – che toccarono a Succi ripetutamente a partire dal primo digiuno-show, appeso dentro una gabbia in un ristorante romano –, la prigione, i rovesci di fortuna, la fine della vita come custode di un altro manicomio, quello toscano di Castelpulci, dove peraltro raccolse le confidenze di Dino Campana.

Partendo dalla consultazione di una mole di documenti (c’è anche una cronaca de La Nazione su una resurrezione di Succi), Carabba trasforma la vita del digiunatore in un romanzo irresistibile, fatto di scatole cinesi – oltre 80 piccoli capitoli in 256 pagine – che contengono ognuna un episodio storico, o la sua reinvenzione, e la goccia d’elisir alchemico che ne sintetizza, con precisione inesorabile mascherata con ironia e dolcissima svagatezza, il fine ultimo universale: il valore del dubbio, le acrobazie dell’entusiasmo, la fierezza della semplicità. In bilico tra panzane e genialità, tra follia e divinità, reso dai massimi studiosi emblema del positivismo e al pari dello spiritismo, profeta inconsapevole individuato da taluni come faro dell’umanità e rinchiuso da talaltri in manicomio, il digiunatore fatto romanzo diventa l’incarnazione del secolo e del suo immaginario. Una solenne baracconata, sì. A cui è però impossibile – o forse solo triste – rinunciare a credere, perché significherebbe tradire quel che sta in fondo alla nostra anima.

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