Martedì 30 Aprile 2024

È un’Italia che ha (ancora) bisogno di Cuore

Il libro di De Amicis è del 1886: per Eco era piccolo borghese. Ma un pamphlet svela quanto manchino ora unità ed educazione

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di Lorenzo Guadagnucci

Contrordine. Cuore di Edmondo De Amicis non è quel testo un po’ retorico, un po’ lacrimevole, di certo ottocentesco che si leggeva e si faceva leggere a scuola. Cuore è anzi un testo miliare per la società italiana, è la sua carta d’identità, il suo progetto esistenziale e va quindi letto, riletto, compreso fino in fondo. Marcello Fois, scrittore d’origine sarda (e quindi “italiano primigenio”, sia pure col “complesso del cadetto”) propone in un sorprendente pamphlet – L’invenzione degli italiani. Dove ci porta Cuore (Einaudi) – una rilettura dell’opera-capolavoro di De Amicis, un bestseller internazionale che non va dunque consegnato agli archivi della letteratura e alla periferia della memoria collettiva.

All’opposto, Cuore sembra degno d’essere riconsiderato alla luce dei problemi presenti, che in alcuni aspetti replicano quelli della neonata Italia dei tempi di De Amicis. Il libro uscì in prima edizione (ne sarebbero seguite presto diverse decine) nel 1886. L’Italia unita era appena nata e aveva l’ambizione – diciamo pure la necessità – di tenere insieme popolazioni diverse e quasi sconosciute fra loro, ciascuna parlante un proprio dialetto, distanti sia fisicamente sia per la storia vissuta, eccezion fatta – ma era cosa recentissima – per l’epopea risorgimentale. Si trattava dunque, come dice Fois, di “inventare gli italiani“ e il buon De Amicis si mise all’opera con i suoi strumenti – penna, calamaio, patriottismo e grande slancio ideale – e immaginò una terza elementare nella Torino umbertina come metafora dell’Italia in costruzione.

Cuore è un diario di classe scandito lungo nove mesi, arricchisto da lettere e racconti, il tutto a comporre una sinfonia di etica e formazione civile, coi ragazzi a rappresentare gli italiani, un popolo ancora inconsapevole di sé stesso. Il libro è un repertorio di buone intenzioni, di gesti esemplari, di slanci sentimentali: un’opera che si può definire buonista. E qui cominciano i problemi, perché il buonismo di De Amicis è una pedagogia civile, un’utopia democratica, mentre il buonismo, nell’Italia di oggi e per certi versi anche di allora, è un epiteto da scagliare contro l’avversario, per tacciarlo di ingenuità, di dabbenaggine, di velleitarismo.

Umberto Eco, in un suo noto scritto del 1961, mise alla berlina il progetto morale di De Amicis e vide in Cuore, semmai, il preludio al perbenismo piccolo borghese che avrebbe portato al fascismo; e Luigi Baldacci, sulla Nazione, lo definì il portavoce di un "Ottocento umbertino, piccolo e filisteo, pieno di buone intenzioni e, tuttavia, impostato su cattive basi". In verità De Amicis era ben cosciente dei gravi problemi dell’Italia del suo tempo, primo fra tutti la difficile integrazione nazionale. In un episodio esemplare, quando arriva in classe un nuovo alunno dalla lontana Calabria, il maestro Perboni chiede al “primo della classe“ – i pierini di don Milani e i luigini di Carlo Levi erano di là da venire – di abbracciare il nuovo compagno, in segno di benvenuto, ma è il bambino calabrese che volta le spalle e scappa via... No, De Amicis non si nascondeva le difficoltà del presente.

Il suo libro tuttavia, questo è il punto, aveva un progetto: definire un’idea d’italianità, e farlo, come suggerisce Fois, attorno al concetto di “brava gente“. Era un’utopia, certamente, in un’Italia corrosa dagli egoismi, dalle mafie, dalle consorterie, dal “familismo amorale“ che di lì a qualche decennio sarebbe stato messo a fuoco da Edward Banfield. De Amicis, che si sentiva “figlio“ di Manzoni e da buon socialista coltivava una smisurata fede nel progresso, guardava però oltre l’esistente, proponeva un’idea di civiltà a un popolo distratto e disunito.

A rileggere oggi le sue pagine, una volta superata una prima sensazione di scrittura “retrò“ (si tratta pur sempre di un libro del 1886), si scopre che Cuore ha una sua attualità. La vicenda del bambino calabrese, per dire, è stata rivissuta da innumerevoli ragazzi del Sud Italia e oggi del Sud del mondo, ma non sono meno vive le pagine sull’etica pubblica, sui legami familiari che sopravvivono alla distanza, sui rischi dell’emigrazione, sul ruolo stesso della scuola come palestra di cittadinanza.

De Amicis lottava contro il cinismo e l’approssimazione; proponeva, con la figura del maestro Perboni, così dedito alla sua missione educativa, un modello di funzionario pubblico consacrato al bene comune. Era un buonista convinto, perché sapeva di vivere in un ambiente “cattivista“.

La sua aspirazione – arrivare a un ’Italia di “brava gente“ – è finita come sappiamo: con tale nozione spesso usata come schermo per coprire e nascondere (agli altri, ma anche a sé stessi) le proprie brutture e anche – in guerra – gli eccidi commessi. Cinismo e cattivismo imperano ancora e l’Italia di Cuore resta un’utopia ma forse proprio per questo il libro di De Amicis merita davvero d’essere letto e riletto, come un grande classico di una nazione assai imperfetta.

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