Mercoledì 17 Aprile 2024

"Caro Primo Levi, non è stata colpa nostra"

“Se questo è un uomo“ uscì in Germania nel ’61: l’Università di Ferrara raccoglie le lettere dei lettori tedeschi allo scrittore, e le sue risposte

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di Lorenzo Guadagnucci

Quando, nel 1959, l’editore Fischer Bücherel acquistò i diritti di traduzione in tedesco di Se questo è un uomo, il razionale e solitamente compassato Primo Levi si sentì "invadere da un’emozione violenta, qualla di avere vinto una battaglia". Levi capì in quel momento di avere scritto di Auschwitz proprio per “loro”, i cittadini tedeschi passati dal Terzo Reich alla nuova Germania federale, democratica e parte dell’occidente liberale: "Si ricordi, – ha scritto Levi ne I sommersi e i salvati, nel capitolo dedicato ai rapporti coi suoi lettori tedeschi – da Auschwitz erano passati solo quindici anni: i tedeschi che mi avrebbero letto erano “quelli“, non i loro eredi. Da soverchiatori, o da spettatori indifferenti, sarebbero diventati lettori: li avrei costretti, legati davanti ad uno specchio".

Levi, preso da una sorta di furore, ingaggiò immediatamente un corpo a corpo con l’editore: quasi gli intimò, a freddo, di non toccare una riga del suo libro, di non tradirne, traducendolo, non solo la lettera ma nenche lo spirito. Non si fidava. In realtà ebbe fortuna, sia perché l’editore era ben intenzionato, sia perché la traduzione fu affidata a una persona speciale, Heinz Riedt, suo coetaneo, un uomo che non aveva tradito la sua fede antinazista e al momento del richiamo alle armi, simulando una malattia, era riuscito a espatriare in Italia, da studente all’Università di Padova; dopo l’8 settembre ’43, e dopo il memorabile appello agli studenti del rettore Concetto Marchesi prima di entrare in clandestinità ("non lasciate che l’oppressore disponga della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l’Italia dalla schiavitù e dall’ignoranza"), si era unito ai partigiani di Giustizia e Libertà, col nome di battaglia Marino.

Primo e Heinz divennero amici, collaborarono per mesi alla traduzione con un fitto scambio di lettere, infine il libro uscì nel 1961. Cinquantamila copie di tiratura iniziale, contro le duemila di Einaudi... Ist das ein Mensch? fu venduto bene, le copie esaurite in poco tempo, ma Levi non fu accolto come sperava, non riuscì a sferzare il popolo tedesco, a suscitare reazioni esplicite. Nella prefazione tedesca, tratta da una lettera privata a Riedt, aveva scritto: "Spero che questo libro avrà qualche eco in Germania: non solo per ambizione, ma anche perché la natura di questa eco mi permetterà forse di capire meglio i tedeschi, di placare questo stimolo".

Furono poche le recensioni, solo una – forse – all’altezza del libro: "Smarriti ci chiediamo – scrisse il critico Heinz Beckmann in Der Rheinische Merkur – come queste persone, con un inferno simile nell’animo, potessero continuare a vivere. Ma poi ci vergogniamo della nostra domanda, che dovrebbe essere formulata al contrario: come facciamo a vivere noi, visto tutto ciò che è stato fatto in nostro nome?"

Levi ricevette circa 40 lettere fra 1961 e 1964 e altre in seguito, a ogni ristampa del libro, ma giudicò degne di attenzione solo le prime, trovando "più scialbe" quelle successive, scritte a maggiore distanza di anni dai fatti. Ne parlò ne I sommersi e i salvati: sono lettere che costituiscono un patrimonio prezioso sia per la conoscenza di Levi, sia per la comprensione di come la sua opera fu accolta in Germania Ovest; sono testi che gettano un faro sul rapporto fra i cittadini tedeschi e la “responsabilità collettiva” per l’ascesa del nazismo e la Shoah e che saranno raccolti in un portale, nell’ambito del progetto LeviNeT dell’Università di Ferrara.

Levi non trovò vera soddisfazione nel suo rapporto coi lettori tedeschi. Uno, in particolare, lo fece infuriare, parlando di sé stesso e dei tedeschi come "popolo tradito e sviato" da Hitler; replicò con durezza all’interlocutore, "esemplare tipico della gran massa della borghesia tedesca: un nazista non fanatico ma opportunista, pentitosi quando era opportuno pentirsi, stupido quanto basta per credere di farmi credere alla sua versione semplificata della storia recente"... Altri lettori mostrarono maggiore consapevolezza e con una, la bibliotecaria Hety Schmitt-Maass, stabilì un rapporto epistolare durato molti anni. Fu lei a metterlo in contatto con l’ingegnere Ferdinand Meyer, che Levi aveva incontrato ad Auschwitz e che ritrovò, casualmente, come suo fornitore di materiali chimici: lo scambio epistolare con Meyer (nel libro chiamato Müller), raccontato nel capitolo Vanadio de Il sistema periodico, è una rappresentazione della falsa coscienza e dei tentativi di auto assoluzione che facevano soffrire, e anche infuriare, Primo Levi.

In una risposta a una lettrice che gli faceva notare come non tutti i tedeschi tennero la stessa condotta durante il Terzo Reich, Levi condensò il suo pensiero sulla responsabilità di quel popolo. Dopo avere riconosciuto che "è pericoloso, è illecito, parlare dei “tedeschi“ o di qualsiasi altro popolo, come di un’entità unitaria", scrisse però di credere nell’esistenza di "uno spirito di ogni popolo", una "Deutschtum, una italianità, una hispanidad" e aggiunse: "Sarò sincero con Lei: nella generazione che ha superato i 45 anni, quanti sono i tedeschi veramente consapevoli di quanto è avvenuto in Europa nel nome della Germania? A giudicare dall’esito sconcertante di alcuni processi, temo siano pochi: insieme con voci accorate e pietose, ne odo altre discordi, stridule, troppo fiere della potenza e ricchezza della Germania di oggi".

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