Un viaggio nei sapori piemontesi autentici e a chilometro ridotto. Si aprono le porte del ristorante ‘Al Sorriso’ sulle colline novaresi. La chef stellata condivide la passione per l’accoglienza con il marito: "La cucina è semplicità. Zero contaminazioni e tantissimo territorio"
Il suo piatto icona è... un fungo nel bosco. Perché i boschi e i prati e i campi, e anche...

Il suo piatto icona è... un fungo nel bosco. Perché i boschi e i prati e i campi, e anche...
Il suo piatto icona è... un fungo nel bosco. Perché i boschi e i prati e i campi, e anche i contadini del suo Piemonte tra il lago d’Orta e la bassa Valsesia, e poi il mare della Liguria sono i fornitori della sua cucina minimale. Anzi, essenziale. "Tre elementi, non di più, in un piatto per non snaturare il sapore dell’ingrediente principale": ecco il mantra che Luisa Valazza porta cucito sulla giacca da chef insieme alla stella Michelin (oggi una, ma in qualche stagione anche due e tre), premio senza interruzioni da qualche decennio alla cucina del ristorante (e hotel) Al Sorriso di Soriso, borgo di neppure 800 anime sulle colline novaresi. Nomen omen, Al Sorriso, per un successo che Luisa con il marito Angelo condivide appunto dagli anni Ottanta, lei che, laureata in lettere, in cucina ci entrò quasi per caso, e prova su prova e libro su libro è arrivata a tanti riconoscimenti da guide e clientele internazionali.
Ma come funziona, una stella in un borgo così piccolo? "Piccolo, e per giunta dove finisce la strada! Portarci la gente funziona con tanto impegno, con la ricerca della massima professionalità, lo studio costante e continuo. Poi, certo, le stelle aiutano, e aiutano le guide, portano chi è appassionato di cucina e vino. Io inoltre mi sono sfidata moltissimo, quando ho preso consapevolezza ho puntato tanto sul passaparola, e ho visto che se non sei una meteora piano piano paga".
Paese piccolo e stella al femminile, ci sono tanti esempi: le conosce? A cosa lo attribuisce? "Sì certo, e ce ne sono state anche prima di me, penso a Mary Barale a Boves nel Cuneese, penso a Nadia del Pescatore a Canneto sull’Oglio... non è una novità, ed è quasi un’esclusiva italiana, in Francia non ci sono mai state donne con tre stelle. Penso che venga dal fatto che la cucina italiana, prima del boom delle stelle, è da sempre cucina della casa, della famiglia, dove la donna era dedita al sostentamento, e da lì il passo a far conoscere la cucina italiana nel mondo è stato automatico".
Lei è autodidatta, che vocazione è stata la sua? "In realtà nessuna vocazione, non ho fatto scuole né stage all’estero. Mi ci sono ritrovata perché ho sposato Angelo che faceva già questo lavoro, veniva da esperienze all’estero, parla tre lingue, e io sono stata per dieci anni la sua spalla in sala a Borgomanero. Poi volevamo un posto nostro, abbiamo acquistato questo, io rimasi in sala perché c’era uno chef, ma era svizzero e volle tornare a casa, e l’unica soluzione fu il mio passaggio in cucina. L’inizio fu drammatico, lo ammetto, rifacevo i piatti dello chef e poi attingevo dai testi, tipo L’arte della cucina moderna del Pellaprat, poi i testi delle cucine regionali, e ancora libri che mettevo sul leggio, la cucina era una biblioteca. Prove su prove, mandavo fuori i piatti e vedevo che tornavano puliti e anche grazie ai consigli e ai piccoli segreti di qualche amico chef, tipo i compianti Giancarlo Godio e Angelo Conti Rossini, e Frédy Girdadet, piano piano ho sviluppato la conoscenza".
Sul vostro sito si legge: ’Filosofia del gusto, profumi che introducono al piacere del cibo’. Come si traduce nella sua cucina? "Semplicità. Zero contaminazioni. Idee tutte mie nate dallo studio delle basi e dei prodotti, incoraggiate dagli amici chef che assaggiavano i piatti: anzitutto l’importanza della ricerca e il rispetto del prodotto, Girardet mi diceva sempre “in un piatto bastano tre elementi, quattro sono troppi”. Ho sempre lavorato con la ricerca forsennata del prodotto e della sua salvaguardia, i miei piatti sono semplici ma non facili, è l’essenziale per non alterare il gusto dell’ingrediente principale".
Qualche esempio? "Due piatti-icona. Un porcino servito intero, ripieno di sé stesso, presentato su un sottobosco creato con pane di segale, germogli, fiori: ci sono solo porcino, aglio e prezzemolo e un filo d’olio. Una patata ripiena di uovo crudo gratinato e tartufo: se togli o aggiungi rovini il piatto. Essenziale".
Lei parla anche di “fuoco lento, quello delle riflessioni”: che tecnica è la sua? "Ragiono molto su un piatto e sui prodotti, rifletto molto, non ho mai copiato piatti o tecniche di altri, non mi sono mai sentita a mio agio con le sferificazioni, le spume, le destrutturazioni, è rovinare gli ingredienti. Lento perché cucino, il piatto lo preparo, non lo assemblo, vado a sensazioni. E, lo stesso piatto, può cambiare da oggi a domani".
Tanto Piemonte, ma non solo. "Non posso essere solo piemontese, il forte del Piemonte è l’autunno-inverno con verdure frutta tartufi carni e la selvaggina che non disdegno. Ma in primavera-estate punto sul pesce, anche perché lo chiedono gli stranieri, così spazio tra Liguria e Sicilia ma sempre cercando la materia prima che voglio io. Solo Mediterraneo".
E crede nel chilometro zero? "L’ho cominciato negli anni Ottanta cercando i mei contadini e coltivando il mio orto, che certamente mi dà solo verdure stagionali. Ma se sai come uno produce, salvi una intera categoria, e oltretutto dai sicurezza al cliente, perché sei responsabile della sua salute".
Quali sapori preferisce cucinare? "Un po’ tutti, ma mi piace molto lavorare con le erbe selvatiche, le ortiche, le cime di luppolo, l’aglio orsino, i fiori, il crescione che vado a cercare nelle acque sorgive, qui abbiamo ruscelli puliti. Comunque sapori italiani, niente spezie orientali, meglio una verdura ben cotta e croccante, sapori che si esaltano come il pesce con le salse di frutta. Io sono golosa di formaggi piemontesi".