
Giorgia Meloni e Donald Trump
Roma, 19 aprile 2025 – Quando il 20 gennaio 2017 Donald Trump iniziò il suo primo mandato, Giorgia Meloni era la giovane leader – sconosciuta all’estero – di un piccolo partito che alle elezioni del 2014 non era entrato nel Parlamento europeo (3,67%) e avrebbe avuto solo il 4,3% alle Politiche del 2018. Otto anni dopo Meloni è ricevuta nello Studio Ovale per un incontro alla pari (anche se con poteri ovviamente molto diversi) dal presidente degli Stati Uniti che la definisce “uno dei leader più importanti del mondo” e la inonda di lusinghe. (“Ha lasciato a tutti una impressione fantastica”, ha detto ieri). Al di là dei complimenti, l’incontro a quattr’occhi con Trump non è stato una passeggiata. Trump sa di essere Trump. Ha messo in ginocchio il mondo che per fortuna – utilizzando i mercati – ha cominciato a ricambiarlo. È imprevedibile e perciò difficile da contrastare. Con Meloni ha provato a giocare duro, lei ha ricambiato con pari energia e per valutazione pressoché unanime è uscita benissimo da un confronto che è stato definito giustamente il più importante da quando è a Palazzo Chigi. È riuscita nel compito più difficile: rappresentare l’Europa (con gran dispetto dei francesi) senza avere ovviamente un mandato che non poteva avere, ma con la grande abilità di aver concordato ogni mossa con Ursula von der Leyen che ieri ha comunicato le “sensazioni positive riscontrate dai vertici della Commissione”.
È noto che Trump ha difficoltà a riconoscere la dirigenza europea. Che cos’è il presidente di una Unione soffocata dalla burocrazia (“Ci siamo messi i dazi da soli”, dice Draghi), che non può muovere un passo se non si è d’accordo in 27? Von der Leyen sta facendo miracoli di equilibrismo per tenere insieme l’oltranzismo di Macron e la prudenza di Meloni, guida una comunità che ha cento milioni di abitanti in più degli Stati Uniti ma ottomila miliardi in meno di Pil (18mila contro 26mila). E soprattutto è un Gulliver ingabbiato dinanzi a un sovrano repubblicano che in un giorno firma cento ordini esecutivi.
Meloni ha ottenuto che Trump venga a Roma ed esamini la possibilità di incontrarvi von der Leyen (auspicio reso più concreto ieri dalla Casa Bianca). Ha ribadito la sua fedeltà (e quella europea) all’Ucraina dinanzi a un leader che ha confermato la sua disistima per Zelensky. Ha reso operativo l’impegno a utilizzare per la difesa il 2% del Pil, annunciato e mai attuato dai governi Renzi, Gentiloni, Conte e Draghi. Si è impegnata a comprare più gas americano ed elementi di difesa: d’altra parte, abbiamo un surplus di oltre 40 miliardi e in qualche modo dobbiamo ridurlo. Non ha avuto, com’era prevedibile, nessun impegno sui dazi. La trattativa deve ancora iniziare. Ieri Meloni ne ha parlato a Palazzo Chigi col vicepresidente Vance: lo ha trovato molto più “politico” di Trump e quindi il terreno su cui intendersi è stato più facile. Meloni è convinta che ci vorrà tempo e molto lavoro, ma è ottimista. Trump d’altra parte si è detto convinto che l’accordo con l’Europa sarà raggiunto “al cento per cento”.
Ha fatto il verso a Trump dicendo di volere un Occidente sempre più grande, che senza America non può esistere. Ha accarezzato le orecchie di Trump con la sua politica per l’immigrazione e la sua ostilità per il mondo woke, quello che va dall’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo per combattere razzismo e colonialismo al ribaltamento delle priorità del mondo tradizionale. Quella immensa Ztl, quella minoranza dominante, contro cui sia Meloni che Trump hanno vinto le elezioni. Ha ricostruito il ponte tra Usa ed Europa bombardato da Trump come non era mai successo in ottant’anni. Vedremo adesso come vi scorrerà il traffico.