Mercoledì 24 Aprile 2024

Disarmare il terrore restando umani. È il nostro dovere

Il filosofo israeliano Yuval Harari ha detto: “Una delle cose terribili della storia è che le persone usano le ferite del passato per infliggere le ferite del presente. Se si segue questa strada, per secoli sarà solo una gara di sofferenza. Ma a volte le persone possono scegliere diversamente”. Noi abbiamo il dovere di scegliere per non perdere la nostra umana empatia, il solo strumento possibile per resistere agli orrori

L'editoriale di Agnese Pini

L'editoriale di Agnese Pini

È lunga quaranta chilometri la striscia mediorientale del combattimento che ha già diviso il mondo, e che ne tiene in scacco gli equilibri. Le prospettive. Le sorti.

Non deve stupirci. Sono quasi sempre le piccole cose, talvolta così piccole da sembrare trascurabili, ad animare gli stravolgimenti universali, a sovvertire il corso della storia. E così gli analisti sprecano i parallelismi tra queste ore incerte e le altre grandi guerre (come l’arciduca assassinato che fu il cerino capace di incendiare il primo conflitto mondiale), mentre ministri (lo ha fatto strumentalmente ieri, per ultimo, il russo Lavrov) evocano dalle macerie di Gaza i presupposti di tragici smottamenti bellici destinati a coinvolgere l’intero pianeta.

Il terrore che si portano dietro certi confronti, e i loro eterni fantasmi, finisce col farci sentire tutti inadeguati, ed esposti, di fronte all’insensata furia della Storia. Inadeguati, sì, come inadeguato è il dibattito delle ultime settimane – dall’atroce attacco terroristico di Hamas dentro i confini di Israele – su chi debba essere considerato il primo responsabile della tragedia che si sta consumando sotto i nostri occhi.

Di barbarie in barbarie, quanto indietro dobbiamo percorrere la linea del tempo per trovare il peccato originale che possa dividere buoni e cattivi, e che possa farci schierare con la coscienza a posto da una parte o dall’altra del combattimento? Perfino l’Onu ha partecipato a questa sfida pericolosa: lo ha fatto prima con le parole di Guterres che ha imputato a Israele il "peccato originale" del conflitto, e poi nella risoluzione di ieri che ha dimenticato di condannare l’orrore di Hamas mentre condannava la feroce risposta di Tel Aviv. Col risultato di frantumare ulteriormente un fronte internazionale già fragile e disorientato.

E quindi cosa dobbiamo fare noi, piccoli, inadeguati ed esposti di fronte a una storia che non possiamo controllare, che non riusciamo a leggere, e che ci sfugge continuamente dalle mani nel momento esatto in cui si compie? Se cercare a ritroso le responsabilità, se partecipare al gioco delle colpe non ha senso, che cosa ha senso? Una risposta l’ho trovata nelle parole di Yuval Harari, filosofo e scrittore israeliano, che in una lunga intervista a SkyTg24, qualche giorno fa, ha detto: "Una delle cose terribili della storia è che le persone usano le ferite del passato per infliggere le ferite del presente. Se si segue questa strada, per secoli sarà solo una gara di sofferenza. Ma a volte le persone possono scegliere diversamente". Scegliere, appunto, è la cosa più difficile in quella che Harari stesso ha definito una "guerra di anime: che non significa solo disarmare Hamas, significa anche preservare l’umanità di Israele". E il suo appello è andato direttamente a noi, spettatori occidentali, che guardiamo la guerra da lontano: "Non siate intellettualmente, emotivamente pigri. Perché gli israeliani ora hanno la mente così piena di dolore che non possono simpatizzare con i palestinesi. Idem per i palestinesi. Sono anch’essi così pieni di dolore che non mi aspetto che empatizzino con il dolore degli altri".

Ma noi che siamo esterni, noi che siamo lontani e che non partecipiamo direttamente a quel dolore, abbiamo il dovere di non perdere la nostra umana empatia, il solo strumento possibile per resistere agli orrori, per non trasformare la doverosa ricerca di giustizia di Israele in una rovinosa sete di vendetta. La pigrizia intellettuale di cui parla Harari è esattamente il contrario della solidarietà, è il presupposto che impedisce alla giustizia di trovare spazio nella ricerca di una soluzione. Ed è l’ultima cosa, fragili e impotenti come siamo, che possiamo permetterci.