Giovedì 25 Aprile 2024

L'eredità del guru dell'Agenda Digitale: "Per battere burocrazia non bastano i computer"

Diego Piacentini, già dirigente di Apple e Amazon, traccia il bilancio di due anni alla guida del Team Digitale che doveva far fare un salto in avanti alla pubblica amministrazione

Diego Piacentini (ImagoE)

Diego Piacentini (ImagoE)

Roma, 17 settembre 2018 - “Per navigare in Italia devi saper affrontare fortissimi venti contrari, ma ti attrezzi e vai”. Occhi scuri e attenti, un sorriso spontaneo che sprigiona energia, modi informali. Lo vedo emergere tra gli ospiti impegnati nelle lente e formali liturgie del forum Ambrosetti di Cernobbio. Un alieno: Diego Piacentini. Classe 1960, 16 anni in Amazon come vicepresidente international e prima ancora in Apple, questo signore è uno che non conosce il concetto di ostacolo. E come potrebbe? Da due anni guida pro bono, come commissario straordinario per l’Agenda digitale, il team del governo con la missione di innovare la pubblica amministrazione. Una missione che per molti tende all’impossibile. Ma non per lui. “Ragazzi, si può fare”, assicura, lo sguardo sempre proiettato nel futuro. Il segreto sono le persone, “servono leader, esempi, motivazione. Da sola, la tecnologia non basta”. Nelle ovattate stanze dei palazzi romani, c’è già una ventata dell’energia che muove la Silicon Valley.

Uno guarda il suo curriculum, poi pensa a cosa è l’amministrazione pubblica in Italia e si chiede: chi glielo ha fatto fare? Non le manca il mondo Amazon? “Amazon mi manca moltissimo: la velocità, l’intelletto, la sperimentazione, la capacità di far le cose in modo semplice. Ma non mi pento assolutamente della mia scelta”.

Cioè infilarsi nell’imbuto della burocrazia... “Sapevo a cosa andavo incontro. Non è che uno va da Amazon al governo e poi si lamenta che c’è la burocrazia. Ho cercato di replicare il più possibile gli strumenti con cui sono abituato a lavorare, e quello principale è il talento umano”.

E così ha creato il team digitale. “Essere commissario straordinario mi ha consentito di assume dall’esterno, ho fatto una campagna di recruiting e selezionato 29 persone. Poi, abbiamo scelto i progetti su cui operare: alcuni c’erano già, con tanto di legge approvata, ma non si faceva nulla. Immobilismo totale”.

Colpa solo della burocrazia? “Non solo. Spesso le amministrazioni locali non avevano gli strumenti e le professionalità adeguate. Non basta digitalizzare il presente, bisogna cambiare i processi e supportare la trasformazione creando competenze. Pensi che circa il 70% degli investimenti fatti nella Pa dal 2000 al 2010 nei Paesi Ocse, due trillioni di dollari, sono andati sprecati o si sono rivelati improduttivi. Questo perché a tecnologia è solo uno strumento, non è sufficiente investire in informatica”.

Ha trovato davvero tutti fannulloni nella pubblica amministrazione come vuole i luogo comune? “Il mito del lavoratore pubblico fannullone è una generalizzazione sbagliata, ce ne sono molti che si fanno in quattro per cercare di migliorare la Pa. Ciò che manca davvero è un modello, un leader che insegni loro, faccia da esempio. Se motivi le persone, scopri che possono fare cose incredibili. Devo confessare che non mi aspettavo di vedere tanta gente desiderosa di cambiamento, ma la situazione è a macchia di leopardo”.

Le è mai capitato in questi anni di scoraggiarsi? “Per ora non abbiamo ancora mollato su nulla, siamo molto tenaci. Le cose più scoraggianti? I dirigenti che devono sempre dire la loro  senza aggiungere valore, se una proposta viene da un altro dipartimento fanno di tutto per dimostrarti che non si può fare. Invece, ragazzi, ci vuole un ‘we can do it approach’. Ma ci sono due caratteristiche italiane alle quali non ero pronto...”

Quali? “Il primo è la produzione eccessiva di leggi, che raggiunge l’apoteosi con la descrizione delle specifiche tecniche nella norma primaria, istruzioni che dopo sei mesi sono già vecchie. Il secondo riguarda le regole su come operare tra pubblico e privato, che hanno una complessità senza eguali. Tutto questo scoraggia la gente e frena l’innovazione”.

Quanto si potrebbe risparmiare digitalizzando la Pa? “Secondo le stime più conservative lo 0,4% del Pil all’anno (circa 6,4 miliardi, ndr). Questo solo per la pubblica amministrazione, senza parlare del sistema Paese”.

C’è un modello al quale vi ispirate? “Non ce n’è uno in particolare: Regno Unito, Usa, Scandinavia, Danimarca e, poi, il gioiello del digitale che è l’Estonia. Cosa li accomuna? Il fatto che sono tutti partiti molto prima di noi, chi dieci, chi sei anni in anticipo”.

Negli ultimi tempi, va di moda parlare di blockchain e anche il governo pare interessato a studiarne le applicazioni. Secondo lei, si tratta di una tecnologia che può fare la differenza anche nel sistema pubblico italiano? “Per ora oltre alle criptovalute la blockchain ha prodotto poco. Si tratta di una tecnologia che può funzionare dove ci sono molti players che non si fidano l’un l’altro né di un unico intermediario, un settore può essere quello della gestione dei commerci navali mondiali. Quindi, in linea teorica, se mi dici blockchain dico ‘yes’, assolutamente. Nella pratica, però, l’applicazione è molto complessa, soprattutto se l'intermediario in questione è lo Stato”.

Molti talenti italiani rendono grandi le imprese all’estero, lei ne è un esempio. Ma perché qui non è nato qualcosa come  Amazon o Apple? “L’Italia come mercato di partenza non ha le dimensioni di quello americano né quell’ecosistema favorevole all’innovazione. Ma io credo che sia inutile cercare di replicare qualcosa che è nato dieci anni fa altrove. Bisogna inventare il nuovo futuro, in settori come le biotecnologie o l’aerospaziale”.

A due anni dalla nascita, il team digitale è in scadenza. “Mi auguro venga prorogato e diventi qualcosa di più grande, con più capacità di incidere. Suggerisco un dipartimento per la trasformazione digitale o un sottosegretariato alla presidenza del consiglio. I processi li abbiamo creati, ora bisogna coinvolgere altre persone, almeno un centinaio, per lavorare sui progetti. La chiave? Dare l’opportunità di lavorare a un progetto, subito dopo la laurea o a fine carriera come è successo a me, attirando anche chi non vuole stare tutta la vita nella Pa. Così  crei un ciclo virtuoso”.

Il suo futuro è in Italia o in America? “Nel breve ho deciso di tornare a Seattle dove vivono mia moglie e i miei figli, questi due anni sono stati un sacrificio anche per loro. Ma per  me la stanzialità non esiste, posso vivere a Seattle e trascorrere sei mesi in Europa. Appartengo a quella categoria di persone che vede la mobilità come parte ordinaria della propria vita”.

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