Giovedì 12 Dicembre 2024
REDAZIONE ECONOMIA

Agrifoodtech. Le startup ci sono ma mancano gli investimenti

L'agroalimentare italiano si apre all'innovazione: investimenti pubblici e privati puntano sulla food tech per un futuro sostenibile.

Agrifoodtech. Le startup ci sono ma mancano gli investimenti

FILIERA DEL CIBO IL 32% DEL PIL La filiera del cibo italiano conta per il 32% del nostro Pil, 1,3 milioni di imprese, più di 3 milioni di occupati (dati Federalimentari/Censis 2023). Ha generato in dieci anni una crescita delle esportazioni del 60%. Infine, e contrariamente allo stereotipo più diffuso, non è solo ottimi prodotti tipici, Doc e Docg, ma anche manifattura, impianti di trasformazione, packaging, brevetti ed innovazione esportati in tutto il mondo

MAI COME negli ultimi anni su scala globale le nostre modalità di produrre e consumare cibo sono state messe in discussione. Non senza ragione si potrebbe dire: le filiere di produzione agroalimentare producono circa il 30% dei gas serra, consumano il 70% delle risorse idriche e circa il 30% del cibo prodotto viene sprecato. Inoltre, patologie direttamente o indirettamente legate al cibo come obesità e diabete sono in crescita. Per effetto della crescita demografica aumentano la quantità di cibo richiesto con conseguenze devastanti sull’ occupazione del suolo, la deforestazione, lo svuotamento degli oceani. Una delle risposte a questa tempesta perfetta è stata la crescita mondiale dell’agrifoodtech, che usa la tecnologia per rendere più equo, sano e sostenibile il modo in cui produciamo, distribuiamo e consumiamo cibo. Le applicazioni possibili sono le più svariate: dall’agricoltura di precisione, al comparto delle proteine alternative, ai sistemi di delivery che tutti usiamo. Questo settore ha visto una crescita enorme degli investimenti globali negli ultimi 10 anni, diverse aziende passare da start up a quotate, e anche se questa rivoluzione è solo all’inizio, ha già cambiato molte delle nostre abitudini.

E l’Italia? Come si sta comportando il paese del cibo ’par excellence’ in questa transizione? Possiamo dire con certezza che non ha ancora espresso compiutamente il proprio potenziale. Qualche cifra: la filiera del cibo italiano conta per il 32% del nostro Pil, 1,3 milioni di imprese, più di 3 milioni di occupati (dati Federalimentari/Censis 2023). Ha generato in dieci anni una crescita delle esportazioni del 60%. Infine, e contrariamente allo stereotipo più diffuso, non è solo ottimi prodotti tipici, Doc e Docg, ma anche manifattura, impianti di trasformazione, packaging, brevetti ed innovazione esportati in tutto il mondo. A fronte di tutto questo, l’ecosistema dell’innovazione food in Italia è ancora embrionale. Il 2023 ha visto investimenti complessivi per circa 250 milioni di euro. Poco, rispetto ai principali mercati europei, e pochissimo considerando che nelle fasi iniziali del ciclo di vita, le startup comunque ci sono. Una analisi di Forward Fooding su un orizzonte di dieci anni indica che l’Italia è al 4° posto in Europa per numerosità di startup agrifoodtech, ma solo al 10° per capitali raccolti. Le startup italiane quindi ci sono ma non ricevono investimenti e, di conseguenza, non crescono.

Dobbiamo quindi rassegnarci? Malgrado una cultura del cibo di valore globale, un tessuto di Pmi innovative unico al mondo, non riusciremo ad affiancare alla filiera tradizionale del cibo italiano un ecosistema fiorente dell’innovazione? Dopo il treno del digitale, il sistema paese perderà anche questo? Esistono in realtà almeno tre ordini di ragioni per essere cautamente ottimisti. La prima è rappresentata dal segnale del settore degli investimenti privati, che comincia a vedere lo sviluppo di più iniziative focalizzate sulla food innovation. Si è infatti aperta la strada alla specializzazione degli investimenti, cui Riello Investimenti Sgr ha fatto da apripista lanciando Linfa, il primo fondo italiano focalizzato sugli investimenti in startup e Pmi agrifoodtech. L’ambizione è quella di canalizzare investimenti in questo settore, dove ci si attende molte opportunità di crescita, ma anche di consolidare una competenza specifica che permetta di agire da ’sounding board’ per gli imprenditori. Infine – a riprova di quanto ambiente e filiera agroalimentare si parlino – verranno valorizzati anche le imprese innovative che vanno a ridurre la produzione di gas serra.

La seconda ragione è rappresentata dal fatto che si colgono segnali importanti anche sul fronte degli investimenti pubblici. Un altro esempio è dato da Cdp Ventures che ha recentemente identificato nell’agrifoodtech un settore strategico di sviluppo. Sempre Cdp, ha inoltre dato impulso alla nascita di una serie di acceleratori (le strutture deputate a far compiere alle startup i primi passi di crescita) focalizzati su questo settore. Un altro aspetto cruciale per il successo dell’agrifoodtech è l’educazione e la formazione. Le università e gli istituti di ricerca italiani stanno sviluppando nuovi corsi e programmi per preparare la prossima generazione di agricoltori e tecnologie. Il Politecnico di Milano ha sviluppato un osservatorio dedicato specificamente all’innovazione agrifood, la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, offre corsi avanzati in robotica agricola e agricoltura di precisione, mentre l’Università di Bologna sta conducendo ricerche all’avanguardia sull’uso dell’IA in agricoltura.

Per questo insieme di ragioni penso sia giusto essere ottimisti. Una prova concreta mi è arrivata recentemente da un imprenditore di grande esperienza internazionale che sta sviluppando una azienda estremamente innovativa. Mi ha detto, con orgoglio, che per fare quello che ha fatto in 4 mesi nel Nord Est italiano, in Silicon Valley ci avrebbe messo 3 anni. Il mix di talenti, ricerca, spirito imprenditoriale e cultura del cibo che abbiamo in Italia è unico, e sicuramente competitivo. Sono mancati gli investimenti, ma adesso la situazione sta migliorando. Gli ecosistemi dell’innovazione sono complessi. Nascono secondo logiche di rete e hanno bisogno di tempo. In Italia fino ad ora non ci sono sempre state le condizioni giuste, ma molte tessere del mosaico si vanno componendo. Se investitori pubblici e privati, centri di ricerca e grandi aziende saranno in grado di collaborare, non c’è alcuna ragione per la quale l’Italia non possa far crescere una nuova generazione di imprese innovative che vadano ad affiancare i grandi e celebri nomi del food Made in Italy.

* Founder e fund manager del fondo Linfa