Giovedì 25 Aprile 2024

LA FED SUONA L’ANDANTE, LA BCE SCEGLIE L’ADAGIO

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SE BANCA CENTRALE EUROPEA e Federal Reserve americana cominciano a ballare fuori tempo, il rischio non è solo quello di un brutto spettacolo, ma che salti quel poco di sincronia che è rimasto tra le due sponde dell’Atlantico. Le tensioni sui mercati di questi giorni, oltre che per la crisi ucraina, ne sono la dimostrazione. Sui tempi di uscita dalle misure straordinarie introdotte in tempi di pandemia, come anche sulle contromisure per fermare le fiammate inflazionistiche e la riduzione dei tassi di interesse, Europa e Stati Uniti hanno infatti visioni distinte e distanti (per usare una vecchia formula cara a Francesco Cossiga), e hanno spartiti diversi: la Fed, più aggressiva, suona un ‘andante’, la Bce, più prudente, si muove con un ‘adagio’. Tuttavia, questo sfasamento può mettere a rischio la ripresa economica e, soprattutto, fa perdere il passo al Vecchio Continente.

I primi effetti sono visibili sul tasso di cambio. Il dollaro è passato da essere scambiato a 1,23 sull’euro a inizio 2021 fino a scendere a 1,13 oggi (circa l’8% in meno). Questo ha provocato un duplice effetto. Da un lato, molte imprese europee sperano in una spinta alle esportazioni grazie all’euro più debole, anche se dobbiamo considerare che la capacità competitiva dei nostri prodotti non si basa su prezzi bassi quanto sulla loro qualità e unicità. Dall’altro lato, poiché le materie prime vengono sempre prezzate in dollari, agli stratosferici aumenti registrati dalle commodities rispetto ai livelli pre-pandemia (petrolio +13%, rame a 57%, gas salito fino a +723%), bisogna aggiungere quelli legati al tasso di cambio. Benzina sul fuoco delle difficoltà per le nostre imprese manifatturiere. Qualcosa di analogo sta accadendo anche in Francia (ma lì, grazie al nucleare, l’elettricità è aumentata meno) e in Germania (il cui Pil nel quarto trimestre del 2021 è arretrato). Ulteriore dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, che in Europa condividiamo il destino con gli altri Paesi e che le nostalgie delle svalutazioni competitive degli anni Ottanta e i sogni di ‘ritorno alla liretta’, sono in realtà degli incubi. Di fronte ad un piccolo vantaggio, infatti, si scatenerebbero guai ben più pesanti. In ogni caso, potremmo essere di fronte ad un progressivo rafforzamento del dollaro e secondo alcuni analisti, già nel 2022 ci si deve attendere un ulteriore apprezzamento del biglietto verde rispetto alle valute del G10.

Le ragioni si trovano soprattutto in scelte antitetiche di politica monetaria. Di fronte al rincaro dei prezzi, infatti, la Fed ha cominciato ad assumere una linea più rigorosa, programmando il termine degli aiuti pandemici entro giugno 2022, per poi procedere a tre aumenti dei tassi. Per l’Ue, invece, il programma di acquisto per l’emergenza pandemica (Pepp) terminerà a marzo, ma il reinvestimento dei proventi dei titoli in scadenza comprati continuerà almeno fino a tutto il 2024. Inoltre, quello che esce dalla porta rientra dalla finestra, perché raddoppieranno a 20 a 40 miliardi al mese gli acquisti previsti da un altro programma (chiamato APP, Asset Purchase Programme). Sui tassi di interesse, poi, l’Eurotower non prevede alcun rialzo prima della fine dell’anno. Insomma, la strategia è diversa. E non solo perché l’inflazione in Europa negli ultimi 12 mesi si attesta al 4,9% contro il 6,9% degli Usa, ma anche per differenti preoccupazioni in merito alla tenuta dei debiti pubblici (e questo problema ci riguarda da vicino).

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