Mercoledì 24 Aprile 2024

Roberto Cingolani: "La Storia su un piano inclinato. Dobbiamo difendere la pace, l’Europa esca dall’immobilità"

L’ad di Leonardo: la guerra fa paura, bisogna stare attenti anche a sabotaggi e attacchi informatici. "Serve un modello comune nel nostro continente, non ci saranno sempre gli Usa a proteggerci"

“La Storia è di nuovo su un piano inclinato", dice Roberto Cingolani. E la lucida, insieme drammatica, consapevolezza è che il tempo a disposizione per prendere le decisioni necessarie a non lasciarci travolgere dagli eventi sia sempre meno. La parola guerra, bandita per ottant’anni dal nostro continente di democrazia e di pace, un continente nutrito dal sogno dell’Europa comune, è tornata prepotentemente di primo piano. Il fatto inedito, e sconvolgente, è che la si usi ormai senza censura, senza pudore. Lo fa il presidente francese Emmanuel Macron – "prepariamoci alla guerra", così il 15 marzo –, lo fa il premier polacco Donald Tusk – "la guerra in Europa è un pericolo reale", le sue parole di ieri – lo fa il presidente del Consiglio europeo Charles Michel: "Se vogliamo la pace prepariamoci alla guerra". Cingolani guida Leonardo Spa in un momento come questo, in cui una delle principali aziende europee nel settore della difesa sta inevitabilmente giocando un ruolo di primo piano sullo scacchiere in cui si decidono gli equilibri del mondo. E non posso non chiedergli se anche lui provi la paura che proviamo tutti, la sensazione tremenda di percorrere una strada cieca.

Roberto Cingolani, 62 anni, amministratore delegato di Leonardo
Roberto Cingolani, 62 anni, amministratore delegato di Leonardo

Anche lei, Cingolani, ha paura?

"Sì. Ho paura. Ho 62 anni e un momento così complesso, precario, pericoloso a livello globale non lo ricordo. Ho paura per la mia famiglia, per i miei figli, ho tre figli maschi, e ho paura perché la Storia sta correndo a una velocità del tutto inedita per le nostre generazioni. E quindi sì, sono preoccupato. Ma sono anche consapevole di una cosa, oggi più che mai, e cioè che la pace va difesa".

"Se vogliamo la pace prepariamo la guerra”. È anche lei di questo avviso?

"Non raccontiamoci che si possa davvero trattare con chi non tratta, parlare di regole con chi le regole le calpesta, usare il dialogo con chi invece usa la violenza dell’invasore. La pace va difesa e questo è un impegno di cui dobbiamo farci carico, per la sicurezza di tutti".

Eppure il concetto di sicurezza sembra enormemente lontano dalla nostra quotidianità.

"Lo è: una vera sicurezza globale è semplicemente impossibile da raggiungere".

È inquietante pensare come nell’era tecnologicamente più avanzata, gli ultimi eventi che hanno scosso il mondo fossero accomunati da un approccio quasi primitivo alla violenza: l’attacco di Hamas del 7 ottobre e la strage di Mosca del 22 marzo.

"L’effetto sorpresa determinato dall’essere umano non è prevedibile, neppure dalla globalizzazione digitale, neppure dai sistemi più raffinati. Tutto ciò accade perché l’espressione umana non necessariamente risponde alle logiche della tecnologia. È proprio questo, più di ogni altra cosa, che ci fa capire quanto siamo distanti dal concetto di sicurezza assoluta".

E dunque che cosa significa, oggi, essere sicuri?

"Torniamo indietro di un paio d’anni, subito dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. Il conflitto e le sue conseguenze ci hanno dato una lezione destinata a stravolgere la nostra visione legata ai conflitti, mostrandoci come anche un evento geograficamente circoscritto abbia immediate ripercussioni sulla sicurezza del globo. In poche settimane la crisi energetica ha travolto il mondo, così come la crisi alimentare, e poi è arrivata l’insicurezza cibernetica e infine infrastrutturale. Quando si parla di sicurezza non dobbiamo concentrarci solo sugli armamenti, sulla guerra guerreggiata, sulle ricadute belliche. La sicurezza di un Paese e di un popolo vive prima di tutto nell’autonomia energetica, nelle infrastrutture, nella sanità, nei servizi".

Sul Quotidiano Nazionale di giovedì, il ministro della Difesa estone Pevkur ha detto che la cosa che più lo preoccupa non è un attacco militare da parte della Russia, ma un massiccio attacco informatico, di cui il suo Paese è già da tempo vittima.

"Dove c’è una rete collegata a un computer c’è potenzialmente la possibilità di bloccare quella rete e quel computer. Quindi i semafori, quindi i treni, gli aerei, le banche. Tutto quello che viene automatizzato perché semplicemente connesso a una rete può essere bloccato. Un attacco informatico o cibernetico opportuno può mandare in tilt strutture energetiche e finanziarie, paralizzare ospedali e perfino il traffico. Purtroppo nel ventunesimo secolo bisogna prendere atto del fatto che per fare una guerra non bisogna dichiararla, basta manipolare la rete per mettere in ginocchio un Paese. Un tempo si sabotavano i ponti, oggi si sabotano le reti".

È il concetto di guerra ibrida.

"Sì, che del resto può avere effetti sorprendenti anche quando siamo sul campo di battaglia".

In che modo?

"Per esempio nella guerra in Ucraina abbiamo visto come con un po’ di abilità elettronica, semplicemente collegando il telefonino al satellite di Elon Musk, dei ragazzini riuscissero a pilotare droni concepiti per fare fotografie e a trasformarli in armi capaci di distruggere carri armati russi da decine di milioni di euro. Una sorta di effetto Davide-contro-Golia".

In Italia quanto siamo sicuri dal punto di vista cibernetico?

"Le nostre strutture sia pubbliche che private sono abbastanza resistenti: finora non abbiamo avuto attacchi catastrofici come è successo in altri Paesi. Ma deve essere chiaro che nessuno può dirsi davvero sicuro. È come con il doping nello sport: di anno in anno escono nuove regole per impedire l’uso di sostanze dopanti, ma nel tempo necessario per legiferare la ricerca ha già sviluppato sostanze alternative. Anche nella cyber sicurezza la tecnologia cattiva si sviluppa molto rapidamente, dobbiamo stare sempre sul chi vive: basta un attimo per diventare vulnerabili".

Come fanno le tecnologie buone a stare al passo con quelle cattive?

"In realtà non esiste una tecnologia buona o una tecnologia cattiva. È l’essere umano che trasforma la tecnologia in qualcosa di buono o di cattivo. Da questo punto di vista è indubbio che i cervelli umani siano importanti almeno tanto quanto le infrastrutture: perché sono loro a decidere il buono o il cattivo utilizzo di una scoperta scientifica e di una invenzione tecnologica".

Di cervelli a disposizione ne abbiamo sempre meno.

"L’Italia come tutto l’Occidente. Non è solo una questione demografica. Mancano giovani con preparazione Stem (Scienza, tecnologia, ingegneria, matematica, ndr), e sono loro che dovranno tenere in piedi le infrastrutture tecnologiche, aggiornandole costantemente. Sono loro il nostro vero investimento sulla sicurezza. Oggi c’è una enorme domanda di ingegneri, fisici, chimici, matematici. E dalle università ne escono troppo pochi".

Quali sono i punti deboli dell’Italia in tema di infrastrutture tecnologiche?

"Sul supercalcolo siamo piuttosto forti. Sul cloud dovremmo fare più lavoro, perché è fondamentale per difendere le informazioni strategiche dei cittadini: da quelle sanitarie a quelle economiche. Sul 5G non siamo stati all’altezza e di fatto dipendiamo da altri Paesi. Sulla cyber security c’è un’attenzione crescente, quindi credo si possa arrivare a essere più robusti in tempi rapidi. Oggi però paghiamo soprattutto il fatto di aver abbandonato ormai da molti anni la manifattura dell’elettronica industriale, avendo spostato all’estero, per esempio, la fabbricazione dei chip. Più o meno tutta l’Europa ha una situazione dello stesso tipo. E anche questo aspetto ci pone oggi in una condizione di oggettiva e pericolosa debolezza".

Del resto è assodato come l’Europa sia completamente impreparata a reggere un attacco bellico, lo ha ricordato ieri il premier polacco Tusk, quando ha detto: «Non siamo pronti». Se non ci fosse la Nato avremmo una capacità di resistenza di soli cinque giorni.

"L’Europa è un continente di pace da decenni, e dunque la nostra difesa è stata organizzata sostanzialmente in chiave di peacekeeping. Quello che sta succedendo oggi è una sorta di choc per noi. È come se improvvisamente ci stessimo risvegliando da un sogno, e il risveglio è doloroso e brutale. Per questo adesso è necessario prendere decisioni e attuare correttivi che siano il più possibile efficaci".

Leonardo come si inserisce nella costruzione di un modello di sicurezza europeo?

"Oggi partecipiamo a due consorzi. Il primo, MBDA, vede Leonardo insieme ad Airbus e Bae Systems, ed è l’unico esempio di consorzio europeo transnazionale che produce sistemi di difesa e missili. Poi c’è Eurofighter, piattaforma congiunta di cui fanno parte Spagna, Germania, Gran Bretagna e Italia: si tratta di un programma aeronautico comune in cui ci sono Stati e aziende che lavorano insieme per realizzare il Caccia multiruolo, una delle piattaforme aeronautiche più sofisticate che dovrebbe diventare il modello aereo di riferimento europeo".

Bruxelles sembra ancora molto lontana dalla capacità di avviare un percorso di difesa comune.

"Siamo immobili, mentre intanto la guerra continua a devastare l’Ucraina e rischia di allargarsi. È come se la vita reale e la vita politica fossero completamente scollate tra loro. La vita reale va molto più veloce, e rischia di travolgerci. La pandemia ci ha fatto capire come una sanità non organizzata secondo principi comuni fosse un pericolo. La guerra ci sta facendo capire la stessa cosa sotto il profilo della difesa. Su questi temi dobbiamo pensare europeo. Anche perché una difesa comune ci renderebbe un partner più solido e affidabile nell’Alleanza atlantica. Oggi invece siamo vulnerabili e con una consapevolezza in più: non ci sarà sempre l’America a proteggerci".

Sa chi diceva, con un’espressione toscana, "sortirne insieme”? Don Milani. Lui però non si riferiva ovviamente alle guerre.

"Mettiamola così: dal punto di vista tecnico e organizzativo conviene essere pessimisti, cioè pensare all’eventualità della guerra, perché il pessimismo è la leva che aiuta a tenerci pronti, e le menti preparate si difendono meglio. Ma è ovvio che dal punto di vista umano, e lo dico anche da genitore, spero che saremo tutti ricondotti alla ragione. Abbiamo abbastanza millenni di storia alle spalle per sapere che la guerra è la cosa più inutile e più sciocca che l’umanità si sia inventata. Ma abbiamo anche abbastanza esperienza per sapere che l’ homo sapiens non è una creatura saggia.

L’homo sapiens è l’unica specie che si differenzia da ogni altra per due caratteristiche: avere un linguaggio e fare la guerra.

"Ce n’è una terza, in realtà".

Quale?

"È l’unica specie che cambia l’ecosistema in cui vive per adattarlo a se stesso. Gli animali non lo fanno, e infatti hanno un’aspettativa di vita costante. Noi, cambiando l’ecosistema, abbiamo allungato la nostra aspettativa di vita. Dopodiché, abbiamo arbitrariamente ritenuto fosse un nostro diritto mantenere il primato sull’ecosistema, come fosse nostro. Ed è questo, in fondo, l’assurdo fondamento di tutte le guerre".