Ma che nostalgia del giullare irriverente

Lorenzo

Guadagnucci

Che cos’è dunque un giullare? Per Dario Fo, che immaginava il Medioevo a modo suo, un irregolare, un attore sovversivo, un comico che irride il potere. I repertori però dicono altro: che era un buffone, un saltimbanco, “esperto – dice per esempio la Treccani – nell’arte di divertire il pubblico” (e niente più). Ecco, Benigni è passato nella sua carriera da Dario Fo alla Treccani. Al principio c’era Roberto da Vergaio: il “Mario Cioni” sottoproletario, il sodale di Carlo Monni da “Champs sur le Bisence” (con il francese a nobilitare beffardamente la prosaica e incoercibile Campi Bisenzio), l’imprevedibile attore di stralunati monologhi, il surreale cine-critico dell’Altra domenica che metteva alla berlina i toni seriosi e saccenti di certi critici “impegnati”.

Era un Benigni incontrollabile; buffo e urticante; un comico senza potere e senza gloria; un iconoclasta. Poi è arrivato il Benigni di successo: coi suoi monologhi televisivi, ancora divertenti ma sempre meno corrosivi, e i suoi celebrati film da attore e da regista; il comico divenuto prevedibile perfino nelle sue mattane, perché un conto è prendere in collo e dondolare il serissimo Enrico Berlinguer a una festa di partito e mostrarne l’umanità celata dietro la maschera del leader politico intoccabile e distante, e un altro conto è la scenetta televisiva con le mani protese verso le parti basse di Pippo Baudo o la gonna di Raffaella Carrà. Oggi abbiamo un Benigni-Treccani, con pochi spigoli, molto mestiere e una popolarità senza confini; potremmo dire, con una punta di nostalgia, che “Roberto da Vergaio” non abita più qui.