Lovelock e ’Gaia’ Una lezione sempre attuale

Elena

Comelli

La domanda non è quella giusta. Per James Lovelock, il biofisico inglese padre della teoria di Gaia, che ci ha lasciati nel giorno del suo 103° compleanno, la questione non è come bloccare l’effetto serra, ma come attrezzarci per affrontare al meglio l’inevitabile processo di surriscaldamento del pianeta. "Entro la fine di questo secolo, vaste aree diventeranno desertiche e questo porterà a enormi migrazioni di massa verso le aree più abitabili. L’umanità, decimata dalla fame e dalle epidemie, finirà per ridursi a un quarto di quello che è oggi, forse meno", prevedeva nell’ultima intervista che ci rilasciò oltre dieci anni fa. In quell’intervista parlò della gravissima siccità causata dallo scioglimento dei ghiacciai, che oggi tocchiamo con mano: "Questa è la vera emergenza, per affrontarla bisognerebbe puntare sul cibo sintetico, sulla dissalazione dell’acqua di mare e sullo sviluppo di nuove tecnologie in campo alimentare".

Lovelock era una figura di scienziato che raramente si è vista dai tempi di Galileo. Già negli anni ’60, indagando per la Nasa sulle possibili forme di vita su Marte, iniziò a rendersi conto della crisi del clima e a denunciarne le conseguenze. Campione del pensiero indipendente, portò avanti le sue idee con decisione, anche quando veniva sbeffeggiato da molti per le sue teorie: quella di Gaia in particolare, che vede la Terra come un organismo complesso e reagente, non come una palla da biliardo fatta a nostro uso e consumo che gira attorno al Sole. La sua battaglia contro i fluorocarburi, forse una delle poche vinte dal movimento ambientalista, è un mito per i ragazzi dei ’Fridays for Future’. Ha mantenuto fino all’ultimo la sua fiducia nell’umanità: "È la prima volta nella vita della Terra che una specie si dimostra capace di capire come funziona e di modificare il corso delle cose". Oggi il testimone passa ai ragazzi riuniti al Meeting di Torino. Saranno loro a prendersi cura di Gaia, ora che lui non c’è più.