Martedì 16 Aprile 2024

"Ho inventato la caccia ai serial killer. E tutto quell’orrore mi ha quasi ucciso"

Intervista all'ex agente Fbi John E.Douglas, la rivoluzione del ’profiling’ e una vita da film: sono finito in coma per il troppo lavoro. "Charles Manson era un vero manipolatore. Oggi i criminali sono facilitati: cercano le prede sul web"

John E.Douglas, 76 anni, ha rivoluzionato all'Fbi la caccia ai serial killer

John E.Douglas, 76 anni, ha rivoluzionato all'Fbi la caccia ai serial killer

Ci sono persone al mondo, poche, che cambiano il corso della storia. Lui, John E. Douglas – l’uomo che sussurra ai serial killer – è una di queste. L’agente Fbi in pensione, oggi 76enne, ha inventato il termine ‘serial killer’ scoprendo negli anni ’70-’80, l’età dell’oro della criminologia in America, che molti delitti erano collegati. Ha dato così il via al profiling dei criminali, per trovare le costanti dietro ogni devianza. Conta migliaia di casi risolti grazie alla sua intuizione rivoluzionaria, oltre a decine di best seller – a cominciare dall’esordio cult Mindhunter da cui è tratta la serie tv Netflix – e ha ispirato la saga di Hannibal Lecter. La sua caccia agli psicopatici si basava su una semplice regola: per capire un killer, bisogna studiarne il metodo. Così iniziò ad andare nelle prigioni a intervistare i peggiori delinquenti del mondo, da Charles Manson a Ed Gain (il killer di Psycho), dal Figlio di Sam a John Wayne Gacy, per farsi raccontare il modus operandi dell’orrore.

Quali sono i tratti comuni dei serial killer?

"Tutti, senza eccezioni, provengono da una famiglia disfunzionale dove c’è stato un abuso da parte di uno o entrambi i genitori. Sono cresciuti senza amore. Un aspetto ricorrente dei bambini, che poi da adulti sono diventati assassini, è la violenza verso gli animali. In classe sono dirompenti, sono autori o vittime di bullismo. Di solito il primo crimine non è un omicidio, ma un reato legato all’esibizionismo. L’Fbi usa lo schema del ‘triangolo omicida’ tra infanzia e adolescenza: passione per gli incendi, frequenti pipì a letto e violenza sugli animali. Poi i desideri di manipolazione, dominio, controllo".

Quanti serial killer sfuggono alla polizia?

"In una ricerca fatta negli anni ’80 ho stimato che in circolazione ce n’erano dai 35 ai 50. Più recentemente negli Usa uno studio ne ha contati 2mila, inserendo anche baby gang e spacciatori. Io consideravo un serial killer dopo 3 vittime, ora la polizia calcola dopo due. Il problema è il tasso di risoluzione degli omicidi, che arriva solo al 55% su un totale di 14-20mila all’anno in America. Nei nostri obitori ci sono ancora 40mila vittime da identificare, molte verranno cremate senza sapere chi sono".

Ci sono ancora i serial killer del passato?

"Certo, ma ricevono meno attenzione. Ora siamo sensibili solo alle storie più estreme, come David Berkowitz – il Figlio di Sam – che scriveva ai giornali e contattava la polizia per deriderla. Ora le tecniche di indagine sono migliorate grazie al Dna, ma i serial killer sono avvantaggiati da Internet, perché lì possono pescare facilmente le prede. Ho scritto un libro su John Robinson, il primo serial killer Usa a utilizzare internet, lui amava gli atti sadomaso".

I parenti delle vittime, che ha intervistato entrando in sintonia e "diventando come loro", si sono arrabbiati con lei?

"Il personaggio della serie tv non è la realtà. Io provo vera empatia per le vittime, ma nelle interviste il mio trasporto è finto, do questa impressione per ottenere informazioni. I killer si divertono a parlare dei crimini, ricordano tutto. Solo una volta ho usato un registratore e preso appunti, perché quei detenuti sono paranoici, sospettosi. Io voglio dare a loro il controllo, non li accuso mai quando mi raccontano l’orrore. Li metto a loro agio sempre. Come con Charles Manson, che era alto un metro e 57, mentre io sono uno e 80. Mi sono dovuto sdraiare sulla sedia per non sembrare enorme. E lui si è seduto sullo schienale per guardarmi dall’alto".

Come si prepara prima del colloquio?

"Studio i dettagli, le foto della scena, i report della polizia, le sentenze dei giudici. I serial killer ti mettono alla prova, se ti vedono pronto allora ridono e si aprono. Non sempre dicono la verità, ma sono narcisisti e quindi devi mostrarti un fan".

Che cosa ricorda di Manson?

"È arrivato e ci ha riso in faccia. Si è messo sulla sedia, come faceva nel ranch di George Spahn, dove predicava ai seguaci su una roccia. Un vero manipolatore. Aveva la quarta elementare, ma un quoziente intellettivo da 120. Voleva diventare musicista dei Beach Boys ed era frustrato per il flop. Non era un serial killer: lui guidava ragazzi hippie che scappavano dalle famiglie. Alla fine del colloquio mi ha chiesto i Ray Ban che avevo, poi si è vantato con guardie e detenuti di averli rubati all’Fbi".

Ha mai avuto paura in cella?

"No, anche se le energie nella stanza erano brutte. Nemmeno con Ed Kemper, alto 2,06 metri, che ha ucciso sette studentesse universitarie e poi la madre, che lo umiliava e maltrattava sin da piccolo. Con lui ho instaurato un buon rapporto, era molto intelligente: un QI di 145. Sua madre era una dominatrice sadica e l’ha fatto diventare un mostro".

Lei ha lavorato come consulente per Amanda Knox. È davvero innocente?

"L’inchiesta italiana è stata tutta sbagliata, non c’era una prova. Il pm si è fatto guidare da una teoria, non dalle evidenze. Come è possibile che Amanda e Raffaele Sollecito siano tornati sulla scena del crimine riuscendo a rimuovere solo il loro Dna e non quello di Rudy Guede? Credo che gli investigatori abbiano manipolato i media".

Da dove nasce il suo fascino per l’orrore più estremo?

"Mi è sempre piaciuto parlare con le persone, da bambino stavo con gli adulti per fare conversazione. Nell’Fbi ero negoziatore di ostaggi, poi a 31 anni nel ’76 sono diventato istruttore di psicologia criminale. Ma mi sono reso conto che i docenti non facevano ricerca sul campo, così ho iniziato a girare le prigioni col mio mentore Robert K. Ressler. All’Fbi inizialmente non piaceva il nostro metodo, poi il programma ha fatto scuola".

Tutto il dolore che ha vissuto l’ha quasi ammazzata.

"Era il 1983 e seguivo gli omicidi di Green River a Seattle. Ero esausto, viaggiavo da un lato all’altro del Paese, non dormivo e quando lo facevo cercavo di sognare i crimini per avere intuizioni. Non vedevo mai la mia famiglia. Il 2 dicembre sono crollato: sono rimasto in coma una settimana e mezzo, poi sulla sedia a rotelle per cinque mesi. Emorragia e lesione su un lato del cervello: mia moglie chiamò il prete per l’estrema unzione".

Perché ha ricominciato?

"Per le vittime e il bisogno di capire. Queste persone ci somigliano, commettono azioni folli ma non sono pazze. C’è un confine leggero e credo sia questa l’origine del fascino della gente verso il crimine".

Con quali demoni deve combattere ancora?

"Le ripercussioni emotive ci sono sempre. Per non rischiare di nuovo, mi alleno a esternare lo stress e sto di più con la mia famiglia. Molti poliziotti ridono del proprio lavoro cruento: è un rilascio emotivo che permette di non tenere tutto dentro. Io indossavo i panni del criminale e della vittima, insieme: è stato molto molto pesante".