Giovedì 25 Aprile 2024

Accuse e complotti fino al braccio della morte. Mistero Barnabei, giustiziato tra i dubbi

Alessandro Milan indaga su una vicenda di vent’anni fa: la condanna capitale di un italo-americano processato per stupro e omicidio

Derek Rocco Barnabei

Derek Rocco Barnabei

Un’inchiesta giudiziaria e un racconto autobiografico. Si intitola ’Un giorno lo dirò al mondo’ il nuovo libro di Alessandro Milan per Mondadori (312 pagine, 19 euro), ispirato alla vicenda dell’italo-americano Derek Rocco Barnabei, giustiziato in Virginia nel 2000 dopo la condanna a morte per l’omicidio della fidanzata Sarah Wisnosky. La sentenza arrivò nel 1993 dopo un processo indiziario durato tre settimane. Milan seguì da vicino per Radio 24 la vicenda. Il giornalista intervistò più volte Barnabei e collaborò a due dirette dal braccio della morte. Ora, in queste pagine, ripercorre un incontro umano che lo ha segnato profondamente. Per 20 anni Milan ha cercato risposte ai dubbi sulla verità di Derek. Condannato a morte per violenza sessuale e omicidio, Barnabei si dichiarò innocente e vittima di un complotto. Anche Giovanni Paolo II si mobilitò contro la sentenza. Anticipiamo qui un brano del libro

-----------

Nel braccio della morte si sta rinchiusi in cella venti ore su ventiquattro. È un luogo fisicamente illuminato ma psicologicamente tenebroso. Sembra una caverna oscura, sporca e degradata. Il fetore è spesso insopportabile. Dopo un po’ le narici sentono solo odore di piscio e feci. Alcuni detenuti per questo sono arrivati a smerciare di nascosto acqua di colonia. Un bicchierino al mercato nero può arrivare a trenta dollari. Derek un paio di volte è stato tentato di lanciarsi in quella spesa folle. Il profumo, anche se di scarsa qualità, è terapeutico, perfino a livello spirituale, in confronto al consueto tanfo di corpi sudati. I condannati a morte sono gli ultimi degli ultimi.

All’interno del carcere sono confinati in un’ala specifica, e devono girare con le lettere DRI appuntate al petto: Death Row Inmate. Suona come uno stigma, ed è una oggettiva limitazione in tutto, nelle telefonate, nelle visite, nei trattamenti sanitari. La privazione del contatto fisico è disumanizzante, la mancanza di socializzazione è l’anticamera della disperazione. L’ora d’aria è vissuta in uno spazio grande come un campo da basket, che deve essere condiviso da cinquanta persone. Ovunque, al di fuori delle celle, i condannati camminano incatenati, piedi e mani, con queste ultime posizionate dietro la schiena. A ogni passo rischiano di cadere faccia in avanti, senza potersi proteggere. La sveglia è alle 6, quando il bagliore del neon invade la cella.

Fuori, lo sferragliare delle chiavi annuncia l’arrivo di una guardia che picchia sulla porta e urla: "In piedi per la conta, prigioniero 227108 o verrà accusato". Ogni due ore i carcerati vengono contati.

Il pranzo è alle 12, la cena alle 5 del pomeriggio, alle 8 di sera si spengono le luci, si fa per dire. Le guardie paiono divertirsi sparando lampi accecanti negli spioncini o battendo con i manganelli le porte blindate. Di tanto in tanto, per spezzare la monotonia dei turni di notte, scatta "l’ora della strega". Gli ufficiali indossano uniformi anti sommossa, poi avanzano in corridoio improvvisando una marcia al grido di: "Sinistra, destra, sinistra, destra, chi è stasera la vittima della giostra?". Quindi si fermano davanti alla cella del malcapitato, scelto non si sa bene come. Se sono in buona, fanno irruzione e si divertono a seminare un po’ di scompiglio e terrore, se invece si fanno prendere la mano vola qualche manganellata. Il sonno, che già arriva a fatica, è interrotto e pieno di terrore.

Bisogna essere molto forti mentalmente per sopravvivere. Ciò che più pesa, psicologicamente, è la mancanza di colori, che all’interno della struttura sono neutri. Le luci sono sintetiche, una sorta di giallo innaturale. Solo di rado, bagliori nitidi penetrano quelle mura. Provengono da pezzettini di bigiotteria senza alcun valore ma di un rosso sgargiante o da foglioline di prezzemolo di un verde intenso che i condannati si procurano dall’esterno. Sono disposti a tutto per farlo, e li custodiscono come tesori preziosi, soprattutto perché proibiti.

I vestiti dei condannati sono di un arancione intenso, come quelli dei monaci buddhisti, le guardie invece vestono di blu scuro e calzano stivaloni. E fanno paura. Hanno armi di ogni tipo: il manganello che provoca scosse elettriche, lo spray al peperoncino, all’occorrenza fucili M16, e tutto intorno a questi grandi prefabbricati di cemento ci sono le torrette, il filo spinato. Su ogni angolo della prigione aleggia un senso di morte. Che alla fine porta un senso di liberazione, quando arriva. A Derek sfugge la mano quando parla di moderni campi di concentramento, anche perché lì dentro fino a prova contraria non immagino né innocenti né perseguitati. Eppure per lui è così: "È un Olocausto moderno, senza esagerazione". Attorno a sé Derek vede esseri umani, e ci tiene a urlarlo con forza. Alcuni di loro hanno commesso delitti orribili, senza dubbio, ma ci sono anche padri di famiglia, ritardati mentali, ragazzini che si sono lasciati alle spalle da poco l’adolescenza. Alcuni di loro sono disabili che non riescono ad andare in bagno o a lavarsi autonomamente.

"Che tipo di società può mettere a morte un essere umano che non è neppure autosufficiente, che non sa neppure scrivere il proprio nome?" Non ho una risposta intelligente alla sua domanda, per cui rimango in silenzio. C’è una caratteristica comune a questa massa umana che popola il braccio della morte. Tutti, a livelli più o meno simili, sono poveri. "Esseri insignificanti, in una società capitalista" mi dice lui. Uomini che non sono stati in grado di comprarsi un buon avvocato, una difesa decente, un investigatore capace se non di scagionarli, di trovare qualche attenuante che ne mitigasse la pena. Per Derek "la giustizia in America ha un cartellino del prezzo molto alto".