Muore dopo 31 anni di coma, il papà: "Mai pensato di staccare la spina"

Lo strazio di Hector con la moglie: "Lasciai il lavoro per assisterlo"

Hector Okamoto, papà di Ignazio (Fotolive)

Hector Okamoto, papà di Ignazio (Fotolive)

Collebeato (Brescia), 26 agosto 2019 - Hector Okamoto, 76 anni, è il padre di Ignazio ‘Cito’, morto venerdì a 54 anni dopo averne trascorsi 31 in coma. Con la moglie Marina, 74 anni, ha accudito il primogenito, allettato e curato nella casa di famiglia, nel centro di Collebeato. Minuto, lo sguardo triste e dolce dietro gli occhiali, Hector quando sente il citofono arriva al cancello del grande giardino insieme a Jack, un labrador biondo di 9 anni. "Non ce lo aspettavamo – dice –. Anche se è logico che con lui dovevamo vivere alla giornata, niente era scontato. Però era da tempo che non chiamavano il medico, non c’era nemmeno bisogno. Tempo fa veniva a visitarlo una volta al mese, poi lo avevo avvertito che in caso di peggioramenti lo avrei chiamato io".

Cito aveva gli occhi aperti? "Sì, sempre. A volte, non so se fosse una nostra suggestione, lo vedevamo seguirci con lo sguardo quando ci spostavamo nella stanza. Chissà, forse capiva. Solo ipotesi, nessuno potrà mai saperlo davvero".

Che ricordo ha di suo figlio prima dell’incidente? "Era un leader, un grande trascinatore, pieno di vita e di amici. Amava il baseball, andava a cavallo. Si era iscritto a Economia e commercio ma aveva lasciato perché aveva trovato lavoro nel mondo dei pc e dei cellulari agli albori, e stava facendo carriera. La nostra linea telefonica era rovente, aveva sempre da organizzare qualcosa con qualcuno. Alla fine ci è morto per la sua voglia di divertirsi".

In che senso? "La sera prima dell’incidente eravamo usciti tutti insieme in famiglia per una pizza, poi lui voleva la macchina per rimanere fuori e andare in giro. Io avevo cercato di dissuaderlo. L’indomani (il 19 marzo 1988, ndr) avremmo avuto una partita di baseball a Piacenza. Gli dicevo che avrebbe dovuto svegliarsi alle sette. Niente. Era impossibile fermarlo".

E poi? "Ci chiamarono alle cinque del mattino per dirci dell’incidente e io mi precipitai all’ospedale di Modena. Aveva riportato ferite alla testa gravissime. Non volevo crederci. Gli cercarono un posto in un centro avanzato, ma tutte le strutture erano piene. Alla fine lo trasferirono in elicottero alla Rianimazione di Parma, dove rimase 70 giorni. I medici fecero il massimo, ma lo dissero subito: coma irreversibile. E così è stato. Ma noi volevamo illuderci".

Come avete organizzato la vostra vita? "I primi due anni Ignazio è stato in un centro riabilitativo a Lonato, poi lo abbiamo portato qui. L’abbiamo gestito noi, con l’aiuto di molte persone attorno. Gli amici, i parenti di mia moglie, gli obiettori di coscienza. Quando c’era da spostarlo e da solo non ce la facevo chiamavo qualcuno".

Come ha fatto con il lavoro? "Io lavoravo in proprio da artigiano. Ho smesso, tutto qui. Per fortuna l’attività di mia moglie, che aveva una profumeria ben avviata, bastava. Per un figlio si fa questo e altro. Ora abituarsi al vuoto sarà dura".

Com’erano le vostre giornate? "Fino al 2010 mi dedicavo molto alla sua alimentazione. Appena uscito dall’ospedale aveva il sondino, ma mi sono accorto che deglutiva e poteva mangiare lo yogurt. Gliel’abbiamo fatto togliere e ho iniziato a farlo mangiare normalmente. Gli cucinavo cibi nutrienti e leggeri, tutti frullati. Le infermiere domiciliari hanno copiato le ricette dei miei ‘beveroni’. Poi mi impegnavano molto le necessità quotidiane. C’erano gli esercizi di fisioterapia, per fargli muovere gambe e braccia. Purtroppo ultimamente le braccia faticava a stenderle. E dopo la polmonite ci hanno consigliato di ricominciare a nutrirlo con il sondino".

Era sempre a letto, Ignazio? "No, lo mettevamo anche sulla carrozzina, e nella bella stagione ce ne stavamo all’aperto a goderci il fresco in giardino".

Si può dire che a tenerlo in vita sia stato il vostro amore. Viene in mente il caso di Eluana Englaro. "Eluana era in una struttura, è diverso. Noi comunque non abbiamo mai pensato all’idea di staccare la spina. Ignazio ci dava la sensazione di percepire qualcosa. Abbiamo sperato fino all’ultimo. E invece... D’altronde la vita è così. Va vissuta, non ragionata".