Mercoledì 24 Aprile 2024

Renzi lascia il Pd. L'azzardo di un capo

Matteo Renzi e Nicola Zingaretti (Ansa)

Matteo Renzi e Nicola Zingaretti (Ansa)

E’ un azzardo, come tutti gli azzardi destinato a essere giudicato dopo. Se andrà bene sarà stata una coraggiosa intuizione, altrimenti un’operazione di Palazzo. Tutti i grandi condottieri hanno azzardato, prima di lasciare quasi sempre le penne nell’assalto finale: il sondaggio di Antonio Noto, sul nostro giornale, attribuiva domenica a un partito di Renzi solo il 5%. D’altra parte Matteo l’azzardo ce l’ha nel sangue, con alterne fortune. Le primarie del 2012 contro la Ditta furono un azzardo, il referendum del 2016 fu un azzardo, lo spariglio anti-Salvini di un mese fa pure. Sbagliato o forse anche inutile star qui adesso a stilare la pagellina dei buoni e dei cattivi e a cercare di capire le ragioni che hanno spinto l’ex premier a prendere il largo. Sono in parte motivazioni politiche, legate al disagio di restare in un Pd ormai giudicato troppo a sinistra, e molto esistenziali, prepolitiche, da ricondurre all’incapacità di Renzi di far parte di una qualsiasi organizzazione, fosse anche la bocciofila di Rignano, dove non sia lui a comandare. Il punto è semmai capire la reale fattibilità di un tentativo che non si limiti ad affermare l’esistenza in vita di un leader, e che rilanci invece un’agenda riformista di cui comunque la si guardi il Paese ha bisogno se non vuole smarrirsi nelle brume del governo più di sinistra della storia e di un Pd pronto a riaccogliere Bersani e D’Alema.

Matteo Renzi è stato un discreto premier e un pessimo segretario del Pd, e in fondo con lo smarcamento di adesso torna a fare il mestiere che sa far meglio. Dovrà esser capace di amalgamare al centro, essere meno divisivo possibile e indicare una strada che vada oltre i suoi desideri di rivincita, rinnovare la comunicazione e forse anche l’organizzazione. In sostanza sarà la politica a dover garantire una prospettiva a una scelta che presenta numerosi punti interrogativi, a cominciare dalla mancanza di un vero casus belli che finirà per renderla incomprensibile ai più, anche agli stessi elettori del Pd felici di essere tornati al governo, per finire ai tanti dirigenti dem Pd, pure renziani, che non seguiranno il loro ex leader. Le scissioni sono sempre un terreno minato, e tra lo slancio del Predellino e lo spettro di Gianfranco Fini la distanza è un soffio di vento.