Droni, la guerra come un videogioco. A Hollywood non è più tempo di eroi

IL COLONNELLO Tom Egan, una lunga esperienza come pilota dell’Air Force in Afghanistan e in Iraq, ogni mattina, prima di uscire di casa dà un bacio alla sua donna, saluta i bambini e raggiunge l’ufficio climatizzato nel deserto del Nevada, non lontano da Las Vegas, che guarda caso è la capitale dei videogiochi. Lì Tom […]

IL COLONNELLO Tom Egan, una lunga esperienza come pilota dell’Air Force in Afghanistan e in Iraq, ogni mattina, prima di uscire di casa dà un bacio alla sua donna, saluta i bambini e raggiunge l’ufficio climatizzato nel deserto del Nevada, non lontano da Las Vegas, che guarda caso è la capitale dei videogiochi. Lì Tom rimane in genere otto ore e può capitare che a fine giornata si congedi dai colleghi dicendo: «Oggi ho fatto fuori sei talebani. Ora me ne vado a casa a preparare il barbecue». La sera in genere Tom rimane in famiglia e la mattina dopo, prima di uscire, si avvicina alla moglie per darle un bacio e poi saluta i bambini, prima di tornare nel suo ufficio per sparare a persone che sono a 11 mila chilometri di distanza. Tom è un pilota di droni. E come capita a quasi tutti i piloti di droni è entrato in crisi perché non regge più la schizofrenia della sua vita.

PAOLO MONELLI con Giuseppe Novello scrissero un libro sul primo conflitto mondiale che si intitola “La guerra è bella ma scomoda”. Ora ne avrebbero scritto un altro dal titolo: la guerra è brutta ma comoda. Tom e gli altri, otto ore seduti in poltrona con il joystick in mano e i video per puntare i missili del drone e centrare gli obiettivi. Con la solita procedura. «Obiettivo nel mirino». «Campo libero, quando vuoi». «Tre, due, uno, centrato!», (in gergo) «Good kill». Come il titolo dell’ultimo film del regista Andrew Niccol, sceneggiatore di “The Truman show”, che è interpretato da Ethan Hawke, di imminente uscita in Italia e che è stato presentato a Venezia con tiepidi consensi perché Niccol racconta lasciando al pubblico la palla di vedersela con l’etica. Il film parla di questo soldato, che non è mai esistito da che mondo è mondo, che fa il pilota senza mai volare, che non vede mai negli occhi il nemico, che uccide senza correre il rischio di essere ucciso e che dice fra sé, frustrato: «La cosa peggiore che mi può capitare è un tunnel carpale o che mi rovesci addosso il caffè».

MA IL NEMICO c’è anche per questo nuovo soldato e il nemico si chiama depressione. «Mio marito è di poche parole», racconta la moglie all’amica. «E che cosa fa quando si arrabbia?». «Parla ancora di meno». Tanti non ce la fanno a reggere anche perché i ritmi sono cresciuti, otto ore che diventano spesso dieci con due di straordinario, perché c’è da finire il lavoro. Sapendo che l’errore è frequente e che non è vero che è sempre un lavoro pulito, come lo definiscono i superiori. «Pronto al lancio?». «Dannazione, cosa ci fanno quelli lì?». «Abortiamo?». «Negativo». «Ma quella è una scuola…». «Tre, due, uno, partito!». Tanti non ce la fanno e cominciano a bere, i rapporti in famiglia diventano difficili, finito il contratto non lo rinnovano e gli ex piloti di droni della Cia o del Dipartimento della difesa passano al civile o cambiano genere. Non per questo, questo tipo di guerra non avrà un domani, anzi, per una ragione semplice che va oltre la questione etica: è una guerra che abbatte i costi sia come vite umane che come bilancio difesa. Secondo il Pentagono la guerra all’Isis costa agli americani tra i 7 e i 10 milioni di dollari al giorno. Un missile Tomahawk costa un milione e mezzo di dollari, un F22 Raptor costa 68 mila dollari per ogni ora di volo. Tra il 2004 e l’aprile del 2015, quindi prima della escalation, in Pakistan sono stati effettuati 415 attacchi, con un range di vittime tra le 2400 e le 3900, un centinaio di attacchi nello Yemen e poi in Somalia, Afghanistan, Pakistan, con avamposti di droni nel Nevada, New Mexico, Afghanistan, Gibuti, Qatar, Bahrain. Negli Stati Uniti due terzi dell’opinione pubblica è favorevole alle guerre a distanza ed entro i prossimi dieci anni il business dei droni sarà di 82 miliardi di dollari con una crescita di 100 mila nuovi posti di lavoro.

IL FILM non ha ricevuto l’imprimatur del Dipartimento della difesa americano nonostante cerchi di frenare i giudizi a parte la battuta contro Obama: «Ora danno i Nobel per la pace anche quelli che fanno questa guerra». E nonostante qualche accenno a regole di ingaggio che si presume disinvolte e senza scrupoli: «Da quando siamo diventati Hamas?». Niccol ha voluto raccontare i protagonisti di un nuovo modo di fare la guerra, uomini invincibili ma che non potranno più conoscere il sapore della gloria o fregiarsi del titolo di eroi. Uomini che sanno di avere un potere di vita o di morte sui nemici e che devono vedersela con un paradosso. Essere piloti e non poter volare. Essere guerrieri alle prese con l’esaurimento nervoso. Guerrieri che non avranno più bisogno delle crocerossine ma dello psicanalista. «Dottore, mi sento un codardo che ogni giorno ammazza gente a migliaia di chilometri di distanza». Good kill, centrato!, va bene anche per lui.

di Giovanni Morandi