Cibo che fa soffrire, un farmaco non basta a curare l’anoressia

Una studentessa di 19 anni e 34 chili di peso si è arresa dopo una battaglia contro il cibo che combatteva da quattro anni. I sintomi dell’anoressia sono il rifiuto categorico dei pasti e la mortificazione del corpo, con magrezza e deperimento. Per le giovani con questo tarlo la dieta prima, il digiuno poi, hanno […]

Una studentessa di 19 anni e 34 chili di peso si è arresa dopo una battaglia contro il cibo che combatteva da quattro anni. I sintomi dell’anoressia sono il rifiuto categorico dei pasti e la mortificazione del corpo, con magrezza e deperimento. Per le giovani con questo tarlo la dieta prima, il digiuno poi, hanno un che di esaltante. I disturbi del comportamento alimentare, non solo l’anoressia ma anche il suo opposto, la bulimia, non sono soltanto problemi psicologici, ma hanno anche una base organica, e sono caratterizzati da piccoli danni ai neuroni osservati con la risonanza magnetica. Questo è un dettaglio utile ai fini della cura. L’Istituto di bioimmagini e fisiologia molecolare del Cnr, in collaborazione con l’Associazione Ippocampo, ha infatti sviluppato un algoritmo in grado di individuare, al momento nell’80 per cento dei casi, una sofferenza legata alla percezione falsata del proprio corpo, partendo dalle immagini anatomiche del cervello. Le strutture più colpite sono la corteccia visiva e il sistema limbico. La ricerca è stata pubblicata su Behavioural Neurology. Un responso che colma una lacuna visto che non si conoscono test o marcatori attendibili in grado di svelare l’anoressia allo stadio iniziale con un semplice esame del sangue. Una volta superata la crisi adolescenziale, la maggior parte delle donne anoressiche tornano in forma, e vivono una vita speciale, ricca di soddisfazioni e di affetto. Solo in casi rarissimi le ricadute costringono al ricovero in clinica. Ecco il giudizio dello specialista ospedaliero in merito ai casi più complessi.

Dottor Zini, che cosa prova il medico quando vede che nonostante tutte le cure la sua paziente non riesce a guarire?

«C’è un desiderio fortissimo di fare qualcosa per aiutare una persona che si sta autodistruggendo. Un sentimento di frustrazione perché devi lottare contro i tentativi di sabotaggio da parte di una ragazza che fa di tutto per evitare di essere salvata», spiega Michele Zini, dirigente medico di endocrinologia a Reggio Emilia, responsabile nazionale della formazione dell’Associazione medici endocrinologi (Ame).

Ma cosa mettono in atto, queste ragazze, per rifiutare le terapie?

«Si tolgono la flebo, staccano il sondino nasogastrico, nascondono le compresse di medicinale, si provocano il vomito per liberare quel poco che hanno messo nello stomaco. Si mettono a correre tutto il giorno, per consumare le calorie rimaste e per annichilirsi. La colpa ovviamente non è loro ma della malattia che le fa soffrire».

Arrivano in ospedale allo stremo delle forze, non rispondono alle sollecitazioni dello psichiatra. Ma non ci sono farmaci?

«No, non esistono farmaci miracolosi per l’anoressia. Abbiamo psicofarmaci che aiutano, ma nemmeno questi rappresentano il fulcro. Nemmeno l’alimentazione forzata con il sondino nasogastrico è magica ma aiuta, così come la flebo, a superare certe fasi di crisi».

Ma come è possibile che una ragazza, nonostante tutte le cure, finisca per perdere la vita a causa della magrezza?

«Purtroppo si innescano complicanze gravi, ad esempio perdite di liquidi che in una persona di pochi chili possono causare scompensi. Una delle ripercussioni più temute è legata alla perdita

di tessuto muscolare. Anche il cuore è un muscolo, in condizioni limite si indebolisce, non è più in grado di fare il suo mestiere».

Come si affronta l’anoressia in clinica quando la ragazza è in pericolo di vita?

«Il disturbo è di competenza psichiatrica ma la sua gestione in ospedale richiede un lavoro di team. Noi endocrinologi ad esempio siamo coinvolti per i disturbi del ciclo mestruale, gli ormoni

della tiroide, i deficit di accrescimento e i problemi dell’osteoporosi».

Una parola di speranza?

«Collaborazione. Questi disturbi del comportamento alimentare richiedono impegno da parte di tutti, cruciale il ruolo della famiglia e degli affetti, accanto ai sanitari, per aiutare a tirare fuori

una persona dai momenti bui».

Alessandro Malpelo, QN Quotidiano Nazionale

Pubblicato il 6 febbraio 2016 su IL GIORNO – il Resto del Carlino – LA NAZIONE

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