“Commodore computer”. Il refrain è una vibrazione dei sensi. Il mio Steve Jobs dell’infanzia. Quell’attrezzo là, il cbm 64, è roba di trent’anni fa. Eppure a me sembra ancora nuovissimo, col cellophane rosa sopra, l’odore di plastica elettrica, i tastoni grandi e l’adrenalina che ti covava dentro. Lo guardo e lo riguardo e non mi sembra un cimelio. E’ sempre il mio home computer dei sogni. E’ sempre nuovo. E guai chi lo tocca. Quell’aggeggio aveva sdoganato l’informatica. Come scienza lontana. Come cyberimpossibilità. Come materia per pochi eletti. Col cbm, e ancor prima col vic 20 e il 16, il computer era diventato un elettrodomestico, al pari della lavatrice o della tv. E non più solo uno ieratico apparecchio da stanze della Nasa e missioni Apollo.
Ricordo anche che quel supporto tenne a battesimo l’embrione di Internet. L’hardware, il modem, era un telefono ingombrante. Serviva a “condividere” i giochi e il basic con altri. E questo quando la condivisione non era ancora un vocabolo facebookiano o twitteriano. Il comunismo del computer l’aveva diffuso il mitico War Games, il film dove il ragazzino prodigio giocava con altri ed entrava nei massimi sistemi grazie a quel primo abbozzo di Rete che poi sarebbe diventata la grande ragnatela di oggi. Ecco, molti di noi, sono pionieristicamente cresciuti col Commodore, che aveva anche un abbozzo del desktop gatesiano, con tanto di mouse e icone. Il Cpm, linguaggio compatibile per un nobile successore del 64, il 128, era una sorta di Ms-Dos, creato per programmare facile. Ho qui davanti il mio 64, con l’arcobaleno e i giochini d’allora. Coi suoi 8 bit e il suo trasformatore. Col suo cavo per la tv e il suo registratore leggi nastri. Omaggio al grande vecchio dell’informatica.
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