Una dolce sofferenza

Soffri, soffri. Sei nato nell’era dei “baby boomers”, del resto. Nell’Italia delle magnifiche sorti e progressive. Quando, per fare figli non c’era bisogno dei giorni delle fertilità e del ministro “anvedi”. Quando le speranze erano di granito, i cieli più blu e l’aria più leggera. Quando ti mettevi il cappottino già a ottobre e non […]

Soffri, soffri. Sei nato nell’era dei “baby boomers”, del resto. Nell’Italia delle magnifiche sorti e progressive. Quando, per fare figli non c’era bisogno dei giorni delle fertilità e del ministro “anvedi”. Quando le speranze erano di granito, i cieli più blu e l’aria più leggera. Quando ti mettevi il cappottino già a ottobre e non andavi in maniche corte d’autunno. Poi, senza nemmeno accorgertene, tutte queste belle cose le hai perse. E pagate. Care, carissime. In sovraprezzo. Hai perso il tuo amico. Con lui avevi diviso gioie giochi passioni dolori delusioni. E te, vigliacco vigliacchissimo, lo hai mollato. Non avevi tempo. Eppure lui aveva bisogno di te. Facile fuggire, eh? Ma la resa dei conti arriva. Inesorabile. Decenni dopo. Insomma, davvero un casino. Affannati, affannati a cercare giustificazioni. Come gli alcolisti. O i tossici. Ecco, i tossici. “Smetto quando voglio”. Non capisci che il tempo passa. Oppure, peggio, fingi che tutto sia fermo. Te ne freghi. Ma, come dicono quelli che se ne intendono, i conti alla fine devono tornare. Magari lo scontrino dei ricordi (e quindi della vita) arriva un pomeriggio qualunque di un martedì pomeriggio in cui non hai nulla da fare. Così. Un attimo. Ti giri e tutto vacilla. Com’è possibile? Non te l’aspettavi, eh? Basta una canzonetta. Facilissimo citare Proust. Montale. Pasolini. “Una canzonetta – citazione a braccio – ti fa rivivere il passato più di mille saggi”. Chiaro: non è constatazione da Accademia della Crusca. Epperò è tremendamente vera.

Sensazione, tranquilli: ora arrivo al punto, che provi leggendo l’ultima fatica di Grazia Verasani, scrittrice e musicista col suo, ferocemente ineguagliabile, “Lettera a Dina” (Giunti, 14 euro). Per la verità, a noi della musica nulla importa. Ci piace invece afferrare la cifra stilistica di Grazia. Di sicuro spessore. Perché svela (impietosa) quel che siamo stati. “La voce dello speaker di Radio Italia annunciò il titolo di un vecchio successo degli Alunni del Sole: E mi manchi tanto… Un 45 giri di cui non ricordavo la copertina, ma la tua voce acuta, sottile, arrivò di nuovo, dopo trentasette anni. Ripeto: trentasette anni. E rividi tutto. Trentasette anni che non ascoltavo quel pezzo”. Ecco, qui sta tutto il romanzo (memoria?) di Grazia Verasani. Qualche critico sempliciotto vede nella narrazione della scrittrice un “affresco” della Bologna anni Settanta-Ottanta. Tra impegno politico, eroina, giovani comunisti e giovani idioti di Autonomia Operaia, tra il Corriere dei Ragazzi e i 45 giri di genere vario. Ma sbaglia chi restringe il suo orizzonte a una città. Le pagine di Grazia sono il manifesto di una generazione. Che credeva, che amava, che faceva della politica un momento di aggregazione e crescita, che cercava di capire le ragioni degli altri stretta com’era tra estremismi idioti. Che, forse, ha fallito. Senza rendersene conto. Peggio, chissà, di Dina. Cui è rivolta questa lettera di Grazia. Una lettera dura, amara, tutt’altro che salvifica. Anche perché morire a trent’anni per quella maledetta scimmia attaccata alla spalla non è giusto. Perché gli anni passano, non te ne accorgi e pensi di esserti innamorata di un genio della musica. E, invece, nulla egli può dare. Solo un pochino di charme. Poverino. Alla fine sei solo una, pur dolcissima, amante. Senza futuro. E allora cerchi nel passato. Trovi, forse. Senza arrivare però a capire come e quando hai perso tutto . E, soprattutto, perché hai perso la tua amica. Con cui ridevi scherzavi sognavi. Tu fossi bolognese, fiorentino, romana…

PS Grazia, fuma di meno

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