Romanzo d’amore urbano

    Un atto d’amore verso Bologna. Un omaggio ai bolognesi che mai e poi mai si vorrebbero andar via. E, ancora, la capacità di capire che non esistono colori netti nella vita, ma tante, tantissime sfumature. Tutti elementi che inducono alla lettura del romanzo d’esordio (Di guerra e di noi, Marsilio) di Marcello Dòmini […]

 

 

Un atto d’amore verso Bologna. Un omaggio ai bolognesi che mai e poi mai si vorrebbero andar via. E, ancora, la capacità di capire che non esistono colori netti nella vita, ma tante, tantissime sfumature. Tutti elementi che inducono alla lettura del romanzo d’esordio (Di guerra e di noi, Marsilio) di Marcello Dòmini (nella foto), classe 1965, professore di chirurgia pediatrica nel nostro Ateneo.

Professore, ora guarite la gente anche con la scrittura?

(ride) «Ah! Magari, lo spero proprio. Diciamo che ho cercato di ’curare’ attraverso le parole».

E di far amare Bologna…

«Noi siamo fatti così. Che si sia bolognesi doc o di adozione. Mai vorremmo andarcene. E, quando capita, la nostalgia impera. Canaglia. Anzi…».

Anzi?

«Anzi ci riesce difficile anche solo cambiare quartiere».

Nel suo romanzo si narra la storia della città dalla Grande Guerra alla Liberazione. Un protagonista su tutti, Ricciotti…

«Il suo nome deriva dal fatto di avere un nonno garibaldino che sta sempre davanti al fuoco a pensare, nella fattoria di Castenaso, al suo Eroe dei Due Mondi. Ricciotti, buono e sincero».

E fascista.

«No, il romanzo dimostra che l’aspetto umano prevale su quello ideologico. Magari è affascinato dal primo fascismo, ’sansepolcrista’, ma senza poi seguire le successive evoluzioni in regime».

Il fratello, Candido, è comunista…

«Dice lui di esser tale. Ma non è, anche in questo caso, un scelta ideologica. Si tratta di una sorta di affrancamento dai suoi tempi. Paradossalmente lui, che sta dalla parte dei liberatori, assume un aspetto più ’cattivo’ e…».

Basta così, professore, non ci riveli altro. Ci dica invece dove nasce la sua passione per la letteratura.

«Confesso. Prima di quella per la medicina. Avevo una prof al liceo incantevole. Mi trasmise forza e passione per la lettura. Per questo ho sempre scritto».

Quanto tempo ci ha messo per scrivere il romanzo?

«Guardi, non l’ho detto nemmeno all’editore, alla mia Marsilio e nemmeno alla editor che mi ha seguito…».

Un editor di altissimo livello, Chiara Valerio.

«Vero: fortuna sfacciata. Una delle maggiori scrittrici italiane che mi legge. Non potevo sperare di meglio».

Bologna, Bologna e ancora Bologna. Nel suo romanzo si corre tra via Indipendenza e Piazza Maggiore, tra via Toscana e il Molino Parisio…

«Le mie strade, le mie piazze. Il mio amore, insomma. Non è stato facile, lo sapete? Anche perché immaginarsi com’erano in tempo di guerra ha richiesto uno sforzo di documentazione notevole».

Tra i protagonisti anche il fascistissimo Leandro Arpinati. Non ha avuto paura di farsi prendere troppo dal personaggio?

«Premetto: per me il fascismo è il male assoluto. Ma studiare il ras mi è servito molto. Lui era un fedelissimo di Mussolini. Poi, cadde in disgrazia, finì addirittura al confino. Ricciotti gli vuol bene non perché è fascista, ma perché è un uomo che prova sentimenti forti. Leali».

Il laboratorio dello scrittore?

«Il mio? Dappertutto».

Vabbè, magari non per la strada.

«E invece sì. Anche mentre attraverso sulle strisce. Prima prendevo appunti con penna e taccuino. Ora c’è lo smartphone».

Scrittura secca…

«Cerco di evitare barocchismi. Meglio: ho una moglie che insiste molto su questo punto. E come si fa a dire no alle mogli?».

Il lettore avrà capito: un libro che ogni bolognese deve avere in casa. Bolognesi da sempre, bolognesi da poco. Bolognesi, comunque.

 

FRANCESCO GHIDETTI