Quell’Italia in bianco e nero

Quando le foto dei giornali erano in bianco e nero perché l’Italia era in bianco e nero. Quando si sparava sparava sparava. Quando l’odio era di massa. O almeno così pareva. Quando bastava essere vestiti in un certo modo per essere aggrediti. Oppure avere i capelli lunghi o corti. Per non parlare delle scarpe. O, […]

Quando le foto dei giornali erano in bianco e nero perché l’Italia era in bianco e nero.

Quando si sparava sparava sparava.

Quando l’odio era di massa. O almeno così pareva.

Quando bastava essere vestiti in un certo modo per essere aggrediti. Oppure avere i capelli lunghi o corti. Per non parlare delle scarpe. O, ancora, dei giornali. Magari passavi da quella certa piazza e dalla tasca spuntava una testata poco gradita e allora erano botte, se non peggio. Erano gli anni Settanta, anni di conquista, anni di paura, anni di crisi, anni in cui la felicità poteva sparire in un attimo. Anni in cui gli stadi non avevano divisioni ferree e forze dell’ordine e steward. Anni in cui dovevi recarti alla partita ore e ore prima per prendere un posto decente. Anni in cui potevi sentire risuonare il grido «Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia». Anni di lacrimogeni. Anni di “sprangate“ tra “fasci“ e “compagni“. Anni lontani, lontanissimi.

Eppure, per chi li ha vissuti, da giovanissimo spettatore o da adulto protagonista, anni da studiare, da rievocare, da leggere, da analizzare. E l’occasione ci arriva da questo romanzo di Angelo Carotenuto: Le canaglie (Sellerio), storia della Lazio intesa come squadra di calcio che costruì la sua epopea tra il 1971 e il 1977. Una Lazio che passa dalla serie B allo scudetto sotto la guida di Tommaso Maestrelli, allenatore simpatico, gentile, già partigiano, comunista in un ambiente che certo di sinistra non era. Un allenatore che fece del tratto gentile ma fermo la sua cifra stilistica sino alla fine, come si dice, prematura e che ancora oggi fa un po’ rabbia. Come la tragica fine di Luciano Re Cecconi, stella biancoceleste in un maledetto pomeriggio del 18 gennaio 1977.

Ma chi pensa di leggere o aver letto un romanzo di letteratura sportiva si sbaglia. Di grosso. No, Carotenuto racconta l’Italia di allora, penetra nei meandri di una Roma violenta come non mai (eppure sempre da amare), nelle sue strade insanguinate e sporche. No, questa volta non ci sono cieli blu cobalto come invece la vedo io nelle mie recensioni e nei miei ricordi. Eppure, e qui entra in gioco una sensazione che è difficile descrivere, nel fare i conti con la propria vita magari passata nella Capitale proprio in quegli anni, non si può avere rancore per quei momenti. Perché, forse, sono vere le parole di Fellini (regista da me pochissimo amato, peraltro): «E’ la memoria che ci salva, il tempo rende il passato sopportabile, per dirla ancora meglio: ci salva la nostalgia. Pensa quando fra 40 anni qualcuno rimpiangerà i giorni terribili che viviamo oggi. La nostalgia è il vero luogo a cui tornare. E’ una riva sicura». Parole indelebili, parole sagge perché la vita non è bella né brutta ma originale. E originali erano quei ragazzi biancocelesti con le loro furfanterie, le loro paure, le loro debolezze, i loro slanci di affetto. Nomi da leggenda del football italico: Chinaglia, Wilson, Martini, Re Cecconi, Nanni, Pulici e via dicendo. Poi c’era il presidente Umberto Lenzini, il presidente dello scudetto della Lazio, scudetto conquistato il 12 maggio del 1974, in una domenica che vide l’Italia, a grande maggioranza, dire un sì definitivo al divorzio.

Carotenuto ci fa un’analisi puntuale del contesto in cui agiva e giocava a pallone la Lazio. Ce lo fa con prosa accattivante e mano ferma attraverso la voce di Marcello Traseticcio, di professione fotografo che nulla sapeva, fino a che il suo giornale glielo impose, di calcio e dintorni (e che mai, diciamolo, se ne appassionò pur scattando foto memorabili). Marcello che perde prima la moglie e poi la figlia. Marcello che non lega con Chinaglia o, meglio non gli diventa amico anche se i due si rispetteranno sempre. Una galleria infinita, impossibile da ricordare tutta, degna della migliore commedia umana. Ci si arrabbia e ci si commuove leggendo queste pagine. E, statene certi, si fa un bel ripasso di storia e di memoria di quegli anni terribili che hanno rivoltato come un calzino il nostro Paese. Le radio libere. Gli Ultras che prendono possesso degli stadi. Il terrorismo rosso. Quello nero. I telegiornali, Carosello e Canzonissima e Rischiatutto. Il divorzio e l’aborto, le femministe e gli squadristi neofascisti. I violenti dell’estrema sinistra e il Partitone di Berlinguer. Sì, c’è proprio tutto in queste pagine che segnano un punto fermo nella narrativa contemporanea. Senza compiacimenti, senza sensazionalismi. Quando si diceva: «Ma non hai letto il giornale?», quando avere gettoni in tasca era d’obbligo, quando a San Basilio e a Due Ponti si moriva, quando i licei romani erano polveriere, quando Paolo Sollier salutava a pugno chiuso e quando la partita era bella vederla allo stadio, all’aperto. Quando Chinaglia andò negli States perché in Italia si sentiva soffocare.

Tutto un mondo scomparso. Resta la memoria. Rigorosamente in bianco e nero.