Per capire un problema, complesso o meno che sia, è spesso più utile leggere un romanzo che cento saggi. Banale, direte. L’ho già sentito mille volte, aggiungerete. Vero. Però, così è. Con un’aggiunta: spesso uno scrittore interpreta, meglio di tanti altri, la realtà. Ce lo insegnava Luis Sepùlveda nelle sue opere, in particolare in quel gatto e quella gabbianella che hanno accompagnato tante delle nostre ore di lettura. Lo scrittore come interprete del presente. Lo scrittore come colui che comprende prima e meglio di altri qual è lo stato delle cose e perché accadono.
Questa introduzione un po’ pedante per suggerire, a chi ha la pazienza di seguirmi, l’ultimo libro di Isabel Allende: Donne dell’anima mia (come sempre edito da Feltrinelli). Uso volutamente la parola “libro” perché Isabel non ci propone un romanzo vero e proprio, ma una riflessione sui diritti delle donne e ci spiega il suo femminismo. L’autrice non credo abbia bisogno di presentazioni. Le opere di Isabel sono tra le più famose della narrativa latinoamericana: è nata a Lima, è cilena di adozione, poi ha vissuto in Venezuela e, successivamente, negli Stati Uniti per non finire nelle grinfie di Pinochet: il presidente legittimo del paese andino, Salvador Allende, era un cugino di suo padre. Dalla Casa degli spiriti a Paula a Eva Luna e via elencando, non c’è romanzo che non abbia avuto successo.
In questo caso, Isabel ci colpisce con serena e dura consapevolezza su quanto le donne devono subire ancora oggi. Lo fa pescando storie dal suo bagaglio di memorie e riportando episodi ora commoventi ora agghiaccianti. Come questo: “Tra il 2005 e il 2009, nell’ultraconservatrice e remota colonia mennonita di Manitoba, in Bolivia, centocinquanta donne e bambine, tra cui una appena di tre anni, sono state regolarmente violentate dopo essere state drogate con uno spray con cui si anestetizzano i tori prima della castrazione. Si svegliavano sporche di sangue e piene di contusioni, ma la spiegazione che veniva loro offerta era che si trattava di una punizione del Diavolo, che erano possedute dal demonio”. Terribile. Come terribile è sapere che le bambine non sono ‘pregiate’ quanto i maschi: in alcune parti del mondo “le levatrici sono pagate meno se il nascituro è femmina”. Oppure, stando ai dati dell’Oms, 200 milioni di donne “sono state vittime di mutilazioni genitali e ancora oggi un milione di bambine corre questo rischio in alcune zone dell’Africa e dell’Asia e nelle comunità di immigrati in Europa e negli Stati Uniti”. E qui mi fermo.
Questi esempi dell’orrore non sono l’unico contenuto del libro di Isabel. C’è una parte (molto bella) in cui lei parla del suo rapporto con il corpo e con gli uomini. Sposata più volte, la scrittrice cilena ci spiega che cosa desiderano le donne e perché saranno loro il ‘motore’ della società. Non indulge a esaltazioni acritiche o autocompiacimenti (Isabel è presidente di una fondazione molto attiva) né impone verità. Fa, semplicemente, il suo mestiere: raccontare. E così (e forse noi uomini dovremmo vergognarci un po’ di più di quanto già facciamo) si capisce perché le donne, anche nei Paesi più avanzati, hanno paura e perché la realtà, a ben guardare, è che il machismo è proprio un eccesso di paura, non certo di virilità.
Insomma, pagine toste e molto, come si dice con frase abusata, di attualità. Da cui imparare, con cui riflettere. Per non dimenticare quante ingiustizie ancora funestino questo nostro mondo e come la letteratura sia una formidabile arma per comprendere e correggere il presente. Un presente sporco. Un presente di soprusi e oppressioni verso le donne. Da cambiare.
Francesco Ghidetti
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