Il primo amore non si scorda. Mai

Metti un giorno, uno qualunque. Passi, per caso, da quella piazza percorrendo quel viale. L’edicola è ancora lì. Magari meno gonfia di giornali e riviste. Magari il chiosco è più moderno. Rifatto. Ma non hai dubbi. Improvvisa, una lama di luce ti acceca per poi posarsi da un’altra parte. Magari senti odori persi e il […]

Metti un giorno, uno qualunque. Passi, per caso, da quella piazza percorrendo quel viale. L’edicola è ancora lì. Magari meno gonfia di giornali e riviste. Magari il chiosco è più moderno. Rifatto. Ma non hai dubbi. Improvvisa, una lama di luce ti acceca per poi posarsi da un’altra parte. Magari senti odori persi e il battito del cuore accelera, è più frenetico perché colpito da echi lontani lontani nel tempo. Magari ti ritrovi a quarant’anni prima, all’improvviso, senza rendertene conto. Pioveva, quella mattina. E lei arrivò e, mentre compravi i giornali, ti venne vicino silenziosamente e ti baciò, com’erano rosse le sue labbra, su una guancia. Magari… magari il tempo corre. Forte. Inesorabile. Non lo puoi fermare. Perché la natura, il destino o chissà che cosa hanno deciso così. Eppure, pur conscio di questa corsa, assapori sensazioni che avevi messo in un cantuccio. Sì, perché il primo amore, colei che ti sfiorò con le sue labbra secoli fa, non si scorda mai. O aveva ragione Pavese quando sosteneva, nei “Dialoghi con Leucò” che, cito a braccio, io piangendo non cercava lei, ma me stesso? Oppure Garcìa Màrquez: “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”?

Sono alcuni pensierini, più o meno languidi, che mi vengono in mente leggendo l’ultima fatica letteraria di Giorgio Montefoschi: “Desiderio”, sui banchi delle librerie per i fuoriclasse della Nave di Teseo (euro 19). Montefoschi occupa la scena patria da decenni. Ha vinto premi (tra cui lo Strega), scrive sui maggiori giornali italiani, ha sempre riempito, di colori pastello, le sue opere. E ora ci riprova con questo romanzo di memoria e formazione al tempo stesso. Non credo che queste brevi note, in attesa di poter sentire l’autore, possano rendere tutta la bellezza del romanzo anche per una, modestissima per carità, ragione autobiografica. Le pagine di Montefoschi, infatti, si muovono lungo vie piazze strade a me assai familiari e care. Le vie piazze strade di Roma, con l’aggravante che si tratta di quelle vie strade piazze dove ho consumato gli anni migliori della mia vita.

La trama è, tutto sommato, secondaria. Diviso in tre parti, il romanzo racconta la vita di Matteo, le sue paure, le sue speranze, ma soprattutto la sua passione per Livia, il primo amore che non si scorda mai, un po’ come accade nel capolavoro dei capolavori della cinematografia, vale a dire “La famiglia” di Scola. Un amore nato nel 1962, ritrovato a metà degli anni ottanta, rinnovato all’alba del nuovo millennio. Un amore di Matteo forse (forse) ricambiato da Livia. O forse un’attrazione potentissima, di natura. Una pietra scolpita nel tempo, nella vita intera (in tal senso il finale è davvero spiazzante).

I protagonisti sono esponenti di una media borghesia romana dai tratti ben delineati, sensibile certo eppure venata da una sorta di incomunicabilità di fondo, o meglio da una ritrosia a certificare le proprie emozioni. Emozioni solo accennate.

Sullo sfondo, ma in realtà in primissimo piano e non è un paradosso, la vera protagonista, come sovente accade nei libri di Giorgio: Roma. Roma con le sue luci. Roma che ti abbraccia anche nei giorni dove nuvole nere addensano il cielo. Roma che ti protegge anche nei tratti di vita all’apparenza più dura, salvo poi tornare a una indefinita normalità. Normalità borghese. Fatta di incontri, amori, disarmanti confessioni, di dialoghi secchi (altro elemento fondamentale per capire la poetica di Montefoschi).

E se il tempo scorre, può anche accadere che non ci si faccia caso, sembra il suggerimento implicito. Salvo poi rendersi conto che solo lei ti ha veramente interessato, che tutto il resto può essere bello brutto originale, però secondario. Un’ossessione gentile, che, come tutte le ossessioni, ti attanaglia. Matteo ama Livia da giovane; nel pieno della vita; da vecchio. E lei, ogni volta, quando meno te lo aspetti, ricompare. Coi suoi dubbi, con il suo egoismo. Eppure lei è sempre lì, nella sua casa di Parioli. Come Matteo è sempre lì, nella casa della beata gioventù nel quartiere Mazzini, accanto a un famoso liceo. Il tutto con la luce e i tramonti che solo la Capitale può dare e con lo scorrere inesorabile della vita, tra amici che si vogliono bene, tra amici che litigano, tra amici che si ammalano. Perché questa è la vita, e nulla puoi farci. Meglio: “vuoi” farci perché, in fondo, il tuo interesse è uno solo. Correre a ritroso nel tempo per prolungare all’infinito il piacere e la passione di un tempo che fu. Chissà se mai veramente esistito.

Inutile che vi dica di leggere questo romanzo magari nell’ora “che precede la sera, che a Roma può essere struggente”. Mi pare di essere stato abbastanza chiaro. Nulla più mi è dato aggiungere per queste pagine dai colori definiti e, tutto sommato, confortanti. Mediamente borghesi, appunto. A patto che si sappia che di magnifiche ossessioni ce ne sono poche. O, addirittura, solo una.