Cotti e i cinesi capitolini

Si impara più da un romanzo che da cento saggi. Frase abusata, ma a me continua a convincere. Esempio: per capire il Risorgimento, «Il Gattopardo» dell’immortale Tomasi di Lampedusa vale di più di tante ricerche storiche. È questa, in poche parole, la magica potenza della letteratura. Letteratura da amare e, soprattutto, da praticare. Leggere significa […]

Si impara più da un romanzo che da cento saggi. Frase abusata, ma a me continua a convincere. Esempio: per capire il Risorgimento, «Il Gattopardo» dell’immortale Tomasi di Lampedusa vale di più di tante ricerche storiche. È questa, in poche parole, la magica potenza della letteratura. Letteratura da amare e, soprattutto, da praticare. Leggere significa vivere. Leggere significa essere attivi perché si capiscono tante cose e si esce dalla gabbia infernale dei luoghi comuni.

Sono queste le riflessioni (ammetto: non originalissime) che mi vengono in mente dopo aver ‘divorato’ «Il cinese» di Andrea Cotti. Un romanzo poliziesco ambientato a Roma e, in parte, a Bologna con protagonista Luca Wu, primo vicequestore italiano di origini cinesi. Dirige il commissario di Tor Pignattara, tra i più popolari, famosi e multietnici quartieri della Capitale. Viene da Bologna, dove ha lasciato moglie e figlio. Meglio: è costretto a lasciare moglie e figlio perché la signora non gradisce i continui tradimenti che il marito mette in atto (ma solo con donne italiane e, a sentir lui, con grande sensi di colpa). Luca rimugina e soffre perché non sa se sentirsi cinese o italiano. Luca supera le tensioni con estenuanti allenamenti di kung fu. Inciso: le pagine sulle arti marziali descritte da Cotti sono state considerate da alcuni critici le più efficaci; secondo me non è vero perché riempiono il vaso narrativo con troppi particolari tecnici. Luca, a un certo punto, deve risolvere un caso davvero terribile: padre e figlia cinese, in occasione di una rapina, vengono uccisi. Non si capisce perché. Solo la testardaggine di Luca e della sua squadre con annessi magistrati tosti e bravi riuscirà a dipanare l’immonda matassa. Spunta la mafia cinese. Una mafia, quella delle Triadi, totalmente diversa dalle nostre ’ndrangheta, camorra e mafia. Uccide solo in casi estremi. È poco interessata ai codici e ai rituali. Non è interessata a controllare il territorio. L’unico obiettivo è far soldi. I moderni mafiosi cinesi ambiscono a diventare uomini d’affari. «E – scrive lo scrittore – nella loro evoluzione, in realtà lo sono». Il lettore, però, stia in guardia: la mafia cinese è protagonista del romanzo, ma per motivi che prescindono dall’attività criminale. Di più ovviamente non posso dirvi.

Sommariamente accennato alla trama, fisso alcuni paletti di discussione che rendono questo romanzo tra i più belli che ho letto negli ultimi anni.

In primo luogo il tema, a me carissimo, della letteratura cittadina. La mappa romana è resa alla perfezione. Tor Pignattara, Garbatella, Tuscolano, Prenestino, Casilino sono proprio così (e io lo so, ci ho vissuto per più di trent’anni da quelle parti). A voler essere pignoli c’è solo una piccolissima sbavatura su via Taranto (lo scrivo per cercare almeno un pelo nell’uovo). Cotti mostra una conoscenza della stratificazione sociale dei quartieri notevolissima, specie per Tor Pignattara e Garbatella. Bellissima, degna di un quadro d’autore, la pennellata sul Mandrione.

Poi c’è Bologna. Qui Cotti gioca in casa. La zona dello stadio (Andrea Costa e dintorni) è lì, ben fotografata.

I personaggi non assumono mai pose macchiettistiche. Molto interessante la figura dell’avvocatessa cinese, molto tormentata ed espressione di un mondo che, piano piano, va affermandosi anche in Italia.

Osanna per la fine dei luoghi comuni. Uno su tutti: i cinesi non muoiono mai. Cotti ci spiega perché è una leggenda. Si impara molto anche sui meccanismi che guidano le Triadi (e qualche brivido scorre lungo la schiena…).

Ancora: le scene di sesso sono verosimili, non hanno nulla di morboso e vince, diciamo così, il realismo (il che non vuol dire che le scene di sesso non debbano indurre a morbosità…).

Altro elemento forte, fortissimo è la scrittura. Secca. Asciugata, mai una parola messa lì per caso (a parte un paio di orridi «supportare» e «un principio di calvizie»). Cotti scrive al presente e mai si perde il filo, talché le 500 e passa pagine scorrono via che è un piacere. Io ho una mia teoria. Forse strampalata, ma chi se ne importa: se riesci a leggere un romanzo anche a notte fonda, dopo una giornata di lavoro e dopo una cena non leggerissima, allora vuol dire che lo scrittore è bravo. E che, come al solito, le cose semplici sono le più belle e istruttive.

Ulteriore e breve riflessione sul protagonista. Luca Wu non è simpatico. Né ci tiene a esserlo. La scelta, però, che Luca fa nel finale del libro non è male. Un finale aperto. Cotti, presentando il libro a Firenze, ha detto che per scrivere «Il cinese» ci ha messo quattro anni. Speriamo che per il prossimo ci faccia aspettare meno. Il tempo corre forte e abbiamo una gran voglia di sapere la sorte di Luca e della moglie e del figlio e di Roma e di Bologna… Come ha detto un maestro come Giancarlo De Cataldo al nostro scrittore: «Cotti, scrivi un cazzo di romanzo!». Parole sante: «Cotti, scrivi un altro romanzo. Datti una mossa!».

ANDREA COTTI, Il cinese, Rizzoli, 19 euro