Mezzo secolo fa il capolavoro dei King Crimson

Va beh, i 50 anni tondi tondi saranno nel 2019, ma gioco d’anticipo, semplicemente perché un po’ di tempo ce l’ho adesso.  In questo giorno nel 1968 nei negozi di dischi appariva ‘In the court of the Crimson king’, un disco inimitabile, intramontabile, un’icona che ha saputo volare in una dimensione fuori dal tempo, come […]

Va beh, i 50 anni tondi tondi saranno nel 2019, ma gioco d’anticipo, semplicemente perché un po’ di tempo ce l’ho adesso.  In questo giorno nel 1968 nei negozi di dischi appariva ‘In the court of the Crimson king’, un disco inimitabile, intramontabile, un’icona che ha saputo volare in una dimensione fuori dal tempo, come una foglia che non ingiallisce mai.  Quella copertina apribile con la faccia stravolta dell’uomo folle crimsoniano è un tatuaggio indelebile: Robert Fripp non ci volle niente sopra, nessuna scritta, una decisione apparentemente suicida per un gruppo al debutto assoluto com’erano i King Crimson. Ma per quel ragazzo con gli occhialini da professore, che nulla aveva della rockstar, parlava quella copertina, dipinta dal povero Barry Godbler morto poco dopo a soli 24 anni, e avrebbe parlato la musica: sapeva di avere ragione e ha avuto ragione, lui che è da mezzo secolo è padre padrone, tiranno assoluto di uno dei gruppi più innovativi della storia del rock, che ancora oggi non smette di sbalordire (pensate al recente tour con tre batterie).

Basta il primo brano di ‘In the court of the Crimson king’ per restare annichiliti: un attacco di chitarra poderoso, come l’arrivo di un treno, poi la voce elettrificata di Greg Lake che scandisce il ritmo mentre il sax di Ian McDonald sembra un cavallo impazzito. E’ un brano che ancor oggi il gruppo inglese non può esimersi dal suonare dal vivo e tutti aspettano l’ultimo pezzo della canzone, l’assolo di Fripp steso su un tappeto sincopato, in simbiosi con il basso di Lake e la batteria di Michael Giles, uno dei più grandi drummer della storia. Dopo tanta violenza, la dolcezza di ‘I talk to the wind’, dalla penna di McDonald, un pezzo dolcissimo, bucolico, tutto giocato sul flauto e la voce di Lake, uno dei più grandi cantanti della storia. E che dire di ‘Epitah’, meravigliosa come una poesia greca, col mellotron che regalava un tocco epico a una melodia commovente che Lake esaltò in un finale in crescendo. E se ‘Moonchild’ era un brano dove dopo l’intro iniziale si lasciava spazio a un’improvvisazione anche troppo lunga, l’atto conclusivo  con il pezzo ‘In the court of the Crimson king’  fu come il tuono che sublimava la tempesta perfetta destinata a sconvolgere  la musica. Si dice che Jimi Hendrix li vide suonare dal vivo e disse “Sono il miglior gruppo al mondo”, ma forse è una leggenda. Come una leggenda sono i King Crimson. Il gruppo si frantumò subito dopo, in un tour americano. Mentre erano in auto sulle colline del Big Sur, in California, Michael Giles e Ian McDonald dissero a Fripp che se ne andavano. Abbiamo sicuramente perso tanto con quell’addio, però il re cremisi ha sempre saputo reinventarsi, grazie al gran burattinaio Fripp, con altri dischi meravigliosi (penso a ‘Lizard’ e ‘Islands’, ma anche a ‘Discipline’), ma non ci sarà mai più un gruppo come i primi King Crimson. E non ci sarà mai più un album come ‘In the court of the Crimson king’.