Addio Lou Reed. Non ricordatelo solo per ‘Walk on the wild side’

Lo sentite questo freddo? Io lo sento, è la mancanza di Lou Reed. E’ un colpo basso, una carognata, qualcuno che bussa alla porta presentandoti il conto di una vita vissuta ai 130 all’ora. Lo so, non faceva un disco serio da un sacco di tempo, ma chissenefrega, io la penso così: meglio tante canzoni […]

Lo sentite questo freddo? Io lo sento, è la mancanza di Lou Reed. E’ un colpo basso, una carognata, qualcuno che bussa alla porta presentandoti il conto di una vita vissuta ai 130 all’ora. Lo so, non faceva un disco serio da un sacco di tempo, ma chissenefrega, io la penso così: meglio tante canzoni vecchie ma toste, che fior di dischi inutili, stampati per la gioia di case discografiche e per raccattare qualche dollaro in più.

 

Lou Reed se n’è andato a 71 anni, la notizia arriva in Italia proprio quando l’oscurità cala prima del previsto per l’avvento dell’ora legale, un buio immenso che avvolge il cuore e lo paralizza. Perché lui era la nostra coscienza, cattiva, se volete, ma dominante. Ha attraversato la vita con la musica,  cavalcandola come una motocicletta, le sue canzoni erano l’unico modo per cercare di capire chi era questo ragazzo nato nel 1942 a Long Island e ben presto brutalizzato dall’elettrochoc in un centro psichiatrico dove l’avevano spedito i suoi illuminati genitori. Una gioventù tagliata con l’accetta. Tranquilli, non starò qui a ricopiarvi la biografia di Wikipedia come faranno domani sulla carta illustri imbianchini del rock. In tanti lo conoscono per ‘Walk on the wild side’ del 1972: quel giro di basso, quel sax vellutato, quel ritornello (‘doo, doo-doo, doo-doo, doo-doo-doo’) così orecchiabile da diventare un tormentone, anche se il testo era brutale, con riferimenti a sesso orale, droga, prostituzione. Parole molto più dure di una melodia fin troppo dolce.  Ma sarebbe un’ingiustizia pensare solo a ‘Walk on the wild side’. Pensate ai Velvet Underground, 4 anni pazzeschi (ah, il disco con la banana in copertina disegnata da Andy Warhol…), un seme gettato nel campo del rock e capace di germogliare ovunque, influenzando tanti. Pensate ai dischi di Lou, successivi. Due esempi: ‘Transformer’, ‘Berlin’  all’inizio degli anni 70, in piena era glam, in collaborazione con David Bowie. Dal vivo è uno spettacolo, un uomo nato per sconcertare il pubblico, un po’ rocker, un po’ attore, musica & cabaret: canta con quella voce apparentemente monotona, usa la chitarra come Pollock usava il pennello, dispensando follia e originalità in abbondanza. A volte i fan rimangono sconcertati (‘Metal machine music’ causò quintali di proteste), ma Lou cade e risorge in continuazione, mentre l’eorina rimane sempre lì, non troppo lontano da lui. Canta la sua New York, ne sviscera il lato oscuro della luna, e ‘Street Hassle’ è una meraviglia randagia. I suoi anni sono soprattutto gli anni 70, vissuti fragorosamente, firmando cambiali che anni dopo il destino gli farà pagare. Poi come sempre accade, alterna dischi buoni a roba trascurabile, ma rimane un mito, un’icona, uno a cui perdoni tutto, perché è Lou Reed. Negli anni 90 incide un bellissimo disco, ‘Sings for Drella’, con John Cale, in memoria del vecchio amico Andy Warhol. Tre anni dopo arriva ‘The raven’, ed è giusto così,chi altro a questo mondo, meglio di Lou Reed, potrebbe omaggiare la sacra follia di Edgard Allan Poe? In quel disco trovate ‘Perfect day’, una canzoncina fin troppo leggera per un tipo enigmatico come Lou, difficile da capire. Chi l’aveva compreso  era la geniale musicista Laurie Anderson, si incontrano e non si lasciano più, decidono di dividere musica e vita, sposandosi nel 2008 nel Colorado. Una volta vennero in Italia per un concerto, lui e lei, insieme, genere quieto, d’atmosfera. Quando salirono sul palco un fan urlò: ‘Rock and rolllllll !!!!’, e lui lo zittì: ‘Macché rock, non hai proprio capito nulla’. Mitico. Ci mancherai, vecchio Lou.

 

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