Le nozze di Antonietta – 3. Quel luogo è maledetto

Leggi il capitolo precedente: Non sfidate la sua mano C’era un motivo, e ben recondito, perché don Manfredi si rifiutasse così ostinatamente di celebrare le nozze di mia sorella nel borgo abbandonato di Pentedattilo. Fu infatti un matrimonio, e non un terremoto, il primo vero dramma che generò la maledizione di quel luogo. Un fatto reale, […]

Leggi il capitolo precedente: Non sfidate la sua mano

C’era un motivo, e ben recondito, perché don Manfredi si rifiutasse così ostinatamente di celebrare le nozze di mia sorella nel borgo abbandonato di Pentedattilo. Fu infatti un matrimonio, e non un terremoto, il primo vero dramma che generò la maledizione di quel luogo. Un fatto reale, storicamente documentato, tramandato a voce dai pentedattilesi e testimoniato su carta dagli storici locali. La vicenda è rimasta alla storia come Strage degli Alberti, o strage di Pasqua, poiché avvenne nella notte in cui Cristo risorge, il 16 aprile del 1686. Protagoniste due famiglie potenti e avverse: gli Alberti, marchesi e signori di Pentedattilo e gli Abenavoli, baroni di Montebello. Agli Alberti apparteneva Antonietta, la bellissima figlia maggiore del marchese, che a un certo punto fu promessa in sposa a un Abenavoli, il barone Bernardino.

Tutto era scritto, o così pareva, quando il destino si mise in mezzo nei panni di don Pedro Cortez, primo consigliere del viceré di Napoli, di sua moglie e dei loro due figli: la primogenita Maria, e suo fratello don Petrillo. Maria Cortez, difatti, era stata promessa in sposa proprio a Lorenzo, marchese di Pentedattilo. Nozze politiche, dicono i bene informati, volto a rinsaldare il potere del viceré nella Calabria ulteriore, periferia a sud del Regno. Quel matrimonio si tenne i primi di aprile: la famiglia dei Cortez, giunta da Napoli, venne accolta da due ali di folla a Reggio, poi col suo codazzo di carrozze agghindate raggiunse la chiesa di Pentedattilo, dove si tennero funzione e banchetto. Nel borgo si mangiò, si bevve e si ballò, poi quando per i Cortez fu il tempo di rimettere piede sulle carrozze dorate per tornare a Napoli, i membri del drappello si accorsero con un certo sgomento che la signora Cortez, cagionevole di salute, si era ammalata.

Molto rischioso farla rimettere in viaggio. Altrettanto rischioso che il consigliere si trattenesse ancora così a lungo lontano da Napoli. Così don Pedro Cortez risolse di ripartire da solo, lasciando la consorte ospite degli Alberti, al castello di Pentedattilo, scortata dal figlio don Petrillo. Rimasto volentieri a vegliare su sua mamma, e già che c’era anche sulla giovane Antonietta, sorella piccola di Lorenzo, la bellissima cadetta promessa in sposa all’Abenavoli. Come andò esattamente la cosa è fin troppo facile da intuire. Don Petrillo si innamorò follemente di Antonietta e ne chiese la mano al suo cognato nuovo di zecca, il marchese Alberti. Che da par suo soppesò le due eventualità: da un lato un matrimonio con i vicini di casa Abenavoli, buono per riportare la pace dopo anni di liti tra Montebello e Pentedattilo. Dall’altro un secondo matrimonio con i Petrillo di Napoli, vicinissimi al vicerè. E scelse i secondi.

Le nozze tra i due innamorati si tennero in tutta fretta nella chiesa di Pentedattilo, il giorno di Pasqua, e furono ancora una volta sontuose: tornò don Pedro Cortez, tornarono i notabili, gli ecclesiasti, si bevve, si mangiò e si ballò nell’antico castello di Pentedattilo. Dove quella stessa notte, col favore del buio e di un castellano connivente, Bernardino Abenavoli entrò armato con i suoi scagnozzi, e uccise tutti, nessuno escluso. La strage degli Alberti, appunto, o strage di Pasqua.

“E quindi voi, per via di un fatto di secoli fa, che non sappiamo neppure se è vero, non mi farete sposare a Pentedattilo?”. Mia sorella era ormai straconvinta che tutte le rimostranze di don Manfredi partissero da lì, da quella sua sciocca credenza ancestrale. Così da ore, dopo lunghi battibecchi e giri di parole su come non fosse concesso salire sull’altare in Quaresima, quanto fosse scomodo raggiungere quella chiesetta, come lì dentro fosse pieno di polvere da anni e mancasse lo spazio anche solo per scambiarsi gli anelli (“Ma le hai viste le nostre bellissime chiese della costa, benedetta ragazza? Potrai sposarti sul mare!”), il suo discorso tornava sempre su quel dettaglio. E don Manfredi, ormai in abiti civili e già sudato per la lunga discussione, continuava a contorcersi, a martoriarsi il collarino bianco della camicia, e a opporre non una ma cento ragioni molto più concrete di quella maledizione antica per evitare un matrimonio, a Pasqua, in quella chiesa. “E allora perché mi ha appena proposto di sposarmi sempre quel giorno, ma in una chiesa giù in paese?”, obiettava mia sorella. “Perché perlomeno sarebbe più semplice, ragazza mia!”, si lamentava il prelato. “Balle!” ringhiava però lei, a questo punto di un copione che andava in scena uguale ormai da un intero weekend.

E già che di impegno, il fato ce ne aveva messo parecchio. A cominciare dalla Pasqua, che quell’anno sarebbe caduta di nuovo il 16 aprile, proprio come cadde nell’anno del signore del 1686, l’anno della strage di Pasqua degli Alberti. Poi c’era il secondo particolare, ancora più terrificante: nella Pasqua 2017 mia sorella Antionietta, una calabrese, sposava a Pentedattilo Pietro, un napoletano, esattamente come a Pasqua del 1686 Antonietta Alberti sposava Petrillo Cortez, scatenando la strage.

Ora: ci fossero davvero queste superstizioni nella mente del povero prelato, i due avrebbero potuto scrollare le spalle, e biasimarlo per la sua ignoranza, decidendo poi di fare gli adulti e pensare a un altro, magari più bel campanile, vicino a casa di lei o magari di lui, per unirsi in matrimonio. Avrebbe acconsentito Pietro, di sicuro. Ma mia sorella no, affatto! Lei a sedici anni aveva deciso che in quella chiesa e in quel borgo diroccato si sarebbe sposata, e chissà se mai in qualche modo avrebbe cambiato idea. Era per questo che ogni volta, all’apice del discorso, come in un supplizio tutto ricominciava da capo.

(3. Continua)