Venerdì 26 Aprile 2024

Ora fuori le forbici

Giuseppe Turani ANNI FA l’economista Giorgio Fuà aveva avanzato una proposta divertente. Per fare soldi lo Stato potrebbe percorrere strade inconsuete. Ad esempio, potrebbe vendere titoli nobiliari. Vuoi essere chiamato Conte di Gallarate? Versa subito 10mila euro, poi ci sarà una tassa annuale. Vuoi essere il Duca di Poggibonsi? Benissimo, 20mila euro. Non hai tutti questi soldi? Puoi fare il Barone di Tortona: 5mila euro. E così via. Gli economisti che girano intorno a Renzi sono meno fantasiosi e spiritosi. Pensano di mettere un altro «contributo di solidarietà» sulle pensioni elevate (non si sa quanto elevate). Ha detto lo stesso ministro del lavoro che ci stanno pensando: l’incertezza riguarda l’altezza dove collocare l’asticella della nuova imposta. L’idea (stupidissima) ha varie controindicazioni. La prima riguarda una faccenda di voti. Un po’ tutti i sondaggi riservati fatti in questi giorni dicono che il Pd, come partito, può contare su un consenso che si colloca fra il 34 e il 35 per cento. Poi c’è un 6-7 per cento «personale» di Matteo Renzi: media e alta borghesia che vedono nel premier un progressista svincolato dalla vecchia tradizione ottocentesca della sinistra. Inoltre, c’è il fatto che chi ha una buona pensione di solito è anche un buon consumatore (ormai ne sono rimasti pochi). 

METTERE nuove imposte, pur mascherate da «contributo», rischia di far precipitare il consenso di Renzi e di gettare il Paese ancora di più in recessione. E questo, infatti, è il nodo d’autunno. Circolano varie ricette per uscire dalla crisi, ma tutte hanno un elemento in comune: le imposte. Se si vuole tornare a crescere, le imposte devono scendere. Su questo punto sono tutti d’accordo: keynesiani, neo-marxisti, liberal, monetaristi. Il problema è che all’appello mancano almeno 20 miliardi di euro. Dove trovarli? La nostra pressione fiscale reale (tenendo conto di chi non paga) è ormai del 53% sulle persone fisiche e del 75-80 sulle imprese. In più siamo in recessione e la cura più immediata è appunto non innalzare, ma tagliare le imposte. 

E ALLORA le strade sono solo due. O si fa un taglio violento nella spesa pubblica oppure si informa Bruxelles che non rispetteremo gli impegni europei, con relativa figuraccia internazionale. E il semestre italiano di presidenza dell’Ue all’insegna dei lazzi e frizzi diretti al nostro Paese. Allora non resta che la fuga nell’iperspazio? No. C’è una terza strada: l’accordo programmatico con Bruxelles.  Si va dai vertici della Ue e si concorda si sforare per qualche anno: in cambio si presenta un piano dettagliato di rientro, con ben indicati i tagli di spesa pubblica, la riforma del lavoro, della giustizia. Il tutto monitorato giorno per giorno. Non è come essere amministrati dalla Troika, ma quasi. E non sarà facile ottenere questo trattamento. La Germania è sempre diffidente: sono anni che si parla di tagli della spesa pubblica, ma finora nessuno ha visto niente di significativo. I 30mila boscaioli siciliani sono ancora lì a percepire i loro inutili stipendi. Le diecimila società partecipate dagli enti locali sono sempre al loro posto. Alcune non fanno proprio nulla perché non era previsto che facessero qualcosa: servono solo a distribuire stipendi a qualche trombato della politica. Infilare le mani nella spesa pubblica italiana è come metterle nella bocca di un leone. E infatti finora nessuno ci ha provato sul serio. Ma adesso Renzi dovrà decidersi. O lo fa lui o glielo fa fare Bruxelles. La stagione dei giochi, delle slide in tv e dei proclami è finita. Adesso, se non si tirano fuori le forbici, la recessione va avanti e la nostra sovranità emigra a Bruxelles.

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