Mercoledì 24 Aprile 2024

Renzi e l'ossessione del nemico. Così il rottamatore si è giocato tutto

Un'indole mai cambiata: la sua cifra è lo scontro

ARTE umana per eccellenza, la politica cammina sulle gambe degli uomini. Così accade che passino gli anni e cambino le circostanze ma i caratteri emergano o riemergano, facciano premio sulle idee confondendo tattica e strategia. E a Matteo Renzi il carattere non ha mai fatto difetto. Con una peculiarità, la "sua": volere sempre tutti contro. Una questione di linguaggio dell’anima, prima che della politica, lo porta a cercarsi nemici anche quando non ne avrebbe bisogno, a definirsi solo se l’universo mondo gli dà addosso, a restar preda di una sorta di bulimia gladiatoria fondata sull’idea che più ti lanci contro gli antipatici più diventi simpatico tu. Attitudine pre-politica a una narrazione belligerante, per comprendere la quale serve più lo psicanalista che il politologo, di cui egli non sa liberarsi nonostante che ogni tanto faccia pubblico intendimento di redimersi, come quando da segretario Pd aveva promesso di sostenere i governi Letta e Gentiloni, poi picconati al momento opportuno.

Niente, è più forte di lui. L’ex premier ricorda le continue polemiche di Josè Mourinho, allenatore interista che ogni domenica si inventava un nemico per tenere insieme la squadra: vinse, ma a fine campionato dovette scappare perché aveva capito che l’aria si era fatta irrespirabile. E se l’elenco degli amici del segretario dem è ristretto a due massimo tre persone, quello dei nemici in questi ultimi quattro anni di attività si è allungato ogni giorno. In realtà lo schema del «molti nemici molto onore» è vecchio e già non portò fortuna a chi lo inventò, ma a Renzi almeno all’inizio servì. La rottamazione fu questo. Andare in tv e dire che era tutto da rifare, e che Veltroni, D’Alema, Rosy Bindi e gli altri maggiorenti del partito di allora andavano accompagnati alla porta. Avrebbe potuto farsene amico qualcuno per buttarne giù altri, decise di rischiare l’all-in. Ed ebbe ragione.

Lo aveva fatto a Firenze, quando nelle primarie da sindaco aveva sfidato l’establishment del partitone, i mostri sacri della politica locale, e anche lì ebbe l’intuizione giusta, oltre che la forza per imporsi. Tutti pensarono che fosse strategia, che facesse parte dell’inevitabile mattanza che ogni rivoluzione generazionale si porta dietro, e che dentro l’animo barricadero albergasse il giovane democristiano pronto poi al compromesso. Niente di più sbagliato. Si, certo, c’era un po’ di opportunismo politico, ma molto era il carattere e una volta al governo Renzi dichiarò guerra al mondo sentendosi in guerra col mondo, replicando lo schema del «noi» e del «loro». «Noi» era il fortino di palazzo Chigi e del suo ristrettissimo cerchio magico, loro tutto il resto.

Negli anni sono diventati nemici i vecchi del partito tipo Franco Marini e D’Alema, renzianamente invitati ad andarsene, i sindacati, i magistrati, i boiardi di Stato e quelli di Bruxelles, l’Europa, Confindustria, Napolitano, per ultima la Banca d’Italia. Tutti contro, contemporaneamente. Per un Paese ontologicamente democristiano, una rivoluzione. Eccessiva e poco compresa. Paese che infatti ha tirato un sospiro di sollievo quando sono riapparsi i toni moderati del più innocuo Gentiloni. Renzi lo sa, ma niente, è più forte di lui.