Mercoledì 24 Aprile 2024

Il mercato impazzito

Roma, 25 luglio 2017 - Non c'è crisi che tenga per gli stipendi e le liquidazioni dei super-manager. Anzi, spesso, se non sempre, le ristrutturazioni aziendali si sono rivelate l’occasione per conquistare mega-bonus legati ai tagli di costi e di personale. Nel trend degli ultimi decenni di globalizzazione galoppante, non stupisce, dunque, la buonuscita da capogiro messa in cascina da Flavio Cattaneo: altrettanto eclatanti precedenti, d’altra parte, hanno fatto diffusamente scuola. Ma che queste cifre non sorprendano non vuol dire che abbiano un fondamento giustificato dai risultati aziendali raggiunti. E non c’è bisogno di fare nomi per rendersene conto: basta pensare a certi banchieri italiani degli anni recenti. C’è, però, qualcos’altro che non torna, nelle retribuzioni-monstre, e va oltre lo stesso rapporto remunerazione-performance d’impresa. Qualcosa che attiene al senso comune del popolo, che magari non è lontano dal buon senso e dal senso dell’equità. Al proposito si rivelano esplicativi alcuni numeri e qualche esempio. E così, se Sergio Marchionne ottiene un compenso 435 volte più elevato di quello di un operaio Fca, non è fuori luogo rammentare che Vittorio Valletta, storico amministratore delegato della Fiat dagli anni Quaranta agli anni Sessanta si limitava a una retribuzione appena 20 volte più alta di quella di una tuta blu del tempo. Più in generale, secondo l’Executive Paywatch del potente sindacato americano Afl-Cio, l’amministratore delegato di un grande gruppo Usa quotato in Borsa si portava a casa nel 2015 in media circa 11,4 milioni di dollari: quasi 343 volte di più di un suo operaio o del suo autista (il cui reddito medio è di circa 33mila dollari, più o meno 23mila euro). Con l’aggiunta, non irrilevante, che solo tra 2009 e 2010, in piena recessione, i redditi di un ceo sono cresciuti del 23 per cento. Quando il turbo-stipendio, insomma, non ha più connessione con la realtà.