Mercoledì 24 Aprile 2024

"L’Italia si lamenta, ma alla fine vince sempre"

Julio Velasco e le imprese che cambiano la vita: "Da Mancini a Jacobs, ora le aspettative sono più alte. E aumenta la pressione dei social"

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di Doriano Rabotti

Julio Velasco, come si spiega l’incredibile estate azzurra, tra Europei di calcio, Olimpiadi, Paralimpiadi e volley?

"Con una serie di fattori concomitanti, a volte nello sport succede che si crei una congiunzione favorevole particolare. Ma nel caso dell’Italia c’è anche un altro discorso da fare".

Quale?

"La qualità della gente che lavora nello sport per arrivare al successo, e la tendenza tutta italiana all’autolesionismo. Qui ci si lamenta troppo dei problemi, non è solo un discorso che riguarda lo sport ovviamente. A volte penso proprio che gli italiani non si rendano conto della fortuna che hanno avuto, a nascere e vivere in questo Paese. E invece ci sono molte cose delle quali andare orgogliosi, e soprattutto ci sono tutte le condizioni di partenza che permettono di lavorare bene. I risultati lo dimostrano".

Lei ha avuto Mancini ai tempi della Lazio. Le difficoltà dell’Italia del calcio in questo momento sono fisiologiche?

"In parte sì, ci può essere la necessità di gestire una vittoria in parte imprevista. Gli stessi pareggi di questi giorni, due anni fa sarebbero stati valutati molto diversamente. Ora che l’Italia è campione d’Europa le aspettative sono cambiate. Bisogna trovare un modo per adattarsi a questo. Succederà anche a Jacobs: finora ha gareggiato senza peso psicologico, d’ora in poi le cose cambieranno".

L’altra sera, alla tavola rotonda con Arrigo Sacchi e altri ex ct, lei ha sottolineato una tendenza: ultimamente i favoriti vincono sempre meno, in tutti gli sport.

"E’ così, non so quanto durerà, ma al momento è un dato. Possono esserci spiegazioni diverse, credo che un problema fondamentalmente sia la pressione che ha raggiunto livelli diversi rispetto al passato. Vincere quando sei obbligato a farlo è sempre stato difficile, adesso anche di più".

Si riferisce anche lei al peso dei social?

"In parte sì. È chiaro che non sono i social a farti vincere o perdere, e che non siamo qui per dire: poveri atleti di vertice, che devono sopportare le critiche. Il peso dei social, collegato direttamente al fatto che lo sport è diventato definitivamente il grande spettacolo di questi anni, è solo una componente della pressione generale. Ma è una componente che esiste e con la quale un allenatore, per esempio, si deve confrontare. Perché una volta c’erano pochi canali televisivi, c’erano le domande dei giornalisti, le partite. Adesso un certo tipo di pressione esiste 24 ore al giorno, chiunque può esercitarla, non solo i media. E’ un dato di fatto".

Quindi i favoriti non vincono perché gli altri lo pretendono?

"Io noto che chi ha l’obbligo di vincere fa più fatica che in passato. Il Dream Team era partito male, anche se ce l’ha fatta. La Serbia del volley femminile, per esempio, dal terzo set è stata demolita dall’Italia di Mazzanti, e credo che un ruolo l’abbia avuto anche il peso di giocare davanti al proprio tifo: al momento delle difficoltà, la testa della giocatrici ne ha subito l’effetto. Anche dove è presente il pubblico, il fattore campo influisce meno che in passato, il Var o i videochallenge in questo rendono meno pesanti certi condizionamenti ambientali".

Che cosa pensa della polemica sui premi diversi per Olimpiadi e paralimpiadi?

"Se fosse per me, le medaglie dei paralimpici dovrebbero portare premi non solo uguali, ma addirittura maggiori di quelle delle Olimpiadi. Non per compassione, ma per riconoscere che gli atleti paralimpici che vincono fanno anche più fatica. Il Coni non deve seguire una legge di mercato, in questo: almeno divida a metà tra Olimpiadi e Paralimpiadi. Più in generale io farei anche un’altra cosa: farei disputare le Paralimpiadi prima, delle Olimpiadi, e non dopo".