A 77 anni, dopo tre pre infarti, vari tumori e 26 ricadute in 34 anni dall’inizio delle proprie tribolazioni sanitarie, Maria Fida Moro lascia questo mondo, i suoi affetti e una lunga esistenza da “figlia di“. Figlia di Aldo, nel suo caso, lo statista democristiano sequestrato e ucciso nel 1978 dalle Brigate Rosse. Un evento che la travolge, maggiore di tre sorelle e un fratello – come sarebbe probabilmente accaduto a chiunque –, ma dal quale si reinventa con scelte anti convenzionali. Donna inconfondibile già dal look. La traduzione dell’eccentricità sul piano dell’immagine sono i capelli presto cortissimi. Il taglio militare che incornicia lo sguardo severo – al massimo con un filo di rossetto – denuncia una totale assenza di frivolezza. Tormenti, caso mai. L’esecuzione di Moro, dovunque sia avvenuta, eleva la primogenita ad agente speciale della memoria. Si intesta la caccia alle verità oscure e indicibili del rapimento. Nel 1987 accetta la candidatura al Senato. La Dc, disconosciuta da Aldo Moro nelle sue lettere dalla “prigione del popolo” per l’imbelle adesione al destino di morte imposto dalle forze in campo e dietro le quinte, lucida quel cognome ritrovato e lo riporta in Parlamento. Sembra un accomodamento reciproco per lenire il dolore. Non funziona. O meglio funziona, tra umoralità e intermittenze, per soli tre anni.
Maria Fida è l’unica eletta in Senato con la Dc a passare a Rifondazione comunista (nel 1990). Ci resta due anni e poi vira nel gruppo Misto, salvo approdare nel 1993 al Movimento sociale come candidata sindaco di Fermo. Non si pone limiti. Nel 1994 partecipa alla costituzione di Alleanza nazionale. Se sente di dover dire la sua, la dice senza timori di etichetta. Nel 1999 prova a rientrare nel grembo del grande centro presentandosi con la lista Dini alle Europee. Neppure mille preferenze.
A trascinarla in questo dinamico, forse velleitario e – secondo i non pochi detrattori – "inspiegabile " cammino personale sono i tre elastici della passione civile, dell’amore della verità, dell’orgoglio politico. Il gioco di queste forze asimmetriche produce oscillazioni senza precedenti: di umore e di posizionamento. La frase simbolo è solenne: "L’unico partito che riconosco è la mia coscienza". Rivendica la propria totale libertà di percorso e di pensiero. Lo fa anche a costo di passare per cospirazionista o dietrologa nel riesame dei 54 giorni che cambiarono la storia d’Italia. Bersaglio storico pluriennale è Francesco Cossiga, già Capo dello Stato, visto come corresponsabile della morte di Moro da ministro dell’Interno seguace della linea della fermezza. Non è una fissazione, caso mai una conseguenza degli anni di piombo. Tre giorni fa Anna Maria Cossiga, altra “figlia di“, conferma infatti al Corriere che, dopo la morte di Moro, suo padre si colpevolizzava dicendo "l’ho ucciso io". La rilettura del sequestro fatta da Renzo Martinelli in Piazza delle Cinque lune (sul ruolo di P2 e servizi) le appare corretta.
Nel 2007 Maria Fida dichiara stretta vicinanza al Partito Radicale cui aderisce l’anno dopo. Fonda l’Associazione radicale “Sete di verità“, per indagare "le verità negate" del caso Moro ed episodi quotidiani di informazione non veritiera, "disattenzioni" delle istituzioni, di impossibilità per le vittime e per gli ultimi di avere voce ed ascolto. Il Palazzo cinico e impermeabile? Ormai un fortino nemico. Non si sa dove le rintracci, ma tra un ricovero e una convalescenza, trova sempre nuove energie da spendere: nel 2013 fonda il movimento cristiano sociale denominato Dimensione Cristiana con Moro. Poi a Roma nel 2016 si candida con Roberto Giachetti. Non viene eletta.
La volontà di Maria Fida Moro di preservare la grande lezione politica del padre si traduce anche in una intensa attività saggistica. Non è sola in questa battaglia da irregolare. Il figlio Luca, quel "carissimo" bambino che al tempo del sequestro Moro ha due anni e che lo statista nomina spesso nelle sue lettere, condivide la visione della madre: i brigatisti non hanno mai raccontato la verità. Nel 2010 l’assenza al funerale di mamma Eleonora, la "Noretta" citata tante volte da Moro nelle lettere dal carcere, approfondisce significativamente i dissidi già esistenti con gli altri familiari per la gestione del ricordo e di un cognome così pesante. Unanimi e non rituali le manifestazioni di cordoglio da tutti i mondi attraversati.