Romagna mia è una bella canzone, ricca di fascino di memorie di nostalgie. Magari però è anche un bel calice di Sangiovese. O di Albana. O di Famoso, un autoctono di recente riscoperta. O di bollicine, le conosceva già e le apprezzava anche il Pascoli. Il mondo del Vigneto Romagna, in buona parte sotto l’egida del Consorzio Vini di Romagna, oltre sessant’anni di storia (nacque nel 1962). Oggi riunisce circa 120 aziende, che lavorano buona parte dei 27-28mila ettari del vigneto romagnolo, di cui 8 grandi cantine cooperative – a cui fa capo l’80% del vigneto e del prodotto – e poi 4 imbottigliatori e una miriade di aziende private medio-piccole se non piccolissime. Ne parliamo con Roberto Monti, 67 anni, già direttore della Cantina Cooperativa Forlì Predappio, e da poco più di un anno presidente del Consorzio.
Tanta cooperazione: non è segno di scarsa qualità, nell’immaginario collettivo?
"La Romagna è storicamente una culla della cooperazione, nel 1908 la Cantina di Forlì fu una delle prime cooperative sorte in Italia, costituita da 14 produttori, poi dal 1931 a fine anni ’80-90 tante aziende agricole si sono aggregate in cooperativa. E ciò va a discapito della qualità: in settant’anni l’enologia e la viticoltura in Romagna hanno fatto passi da gigante, un tempo si vendeva il mosto, oggi si fa qualità per il consumo quotidiano e una apprezzata base per spumanti di Trebbiano che poi si rielabora nel Nord, in Germania, in Francia, e poi prodotti premium per valorizzare la collina che ha bisogno di più spinta. E la cooperazione va anche in questo senso, con l’uso di altissima tecnologia per produrre qualità alta".
Il Sangiovese resta il principe?
"Nei numeri il principe è il Trebbiano con 14-15mila ettari di pianura e pedecollina (11mila solo in provincia di Ravenna), mentre il Sangiovese occupa 6mila ettari principalmente nel territorio di Forlì Cesena, a sud della via Emilia. E’ il prodotto di riferimento, però un altro vanto è l’Albana, vitigno autoctono con una sua docg, esteso per 800 ettari. Del resto questo è un momento di maggiore importanza per i vini bianchi rispetto ai rossi, e l’Albana Secco performa bene, con una bella evoluzione produttiva e di consumo: ora, a parte i passiti che sono stupendi ma di nicchia, notiamo un’evoluzione in stili diversi ma più moderni e piacevoli per il consumo nazionale e internazionale: l’Albana si presta a versioni di freschezza e piacevolezza come a prodotti importanti, di grande struttura e lunga macerazione anche in anfora".
C’è anche un’evoluzione del Sangiovese.
"Nel disciplinare sono state introdotte 16 sottozone per esaltare di più il legame territorio-vitigno-vino, con il marchio Rocche, perché in ognuna c’è appunto almeno una rocca. E poi si punta anche sul Sangiovese da appassimento, per prodotti importanti, in stile Amarone". In Romagna ci sono anche altre uve autoctone. "Sì, c’è il Famoso, un tempo chiamato Rambèla, dal grappolo grande e dai chicchi grossi tanto che si usava anche come uva da tavola: aromatico, richiama il Moscato, si presta per vino fermo e anche per la spumantizzazione in abbinamento con altri vitigni. E poi ancora c’è il rosso Centesimino, e c’è la Rèbola di Rimini, simile al Pignoletto".
Non solo basi, però: anche la Romagna ha le sue bollicine.
"Abbiamo introdotto il marchio Novebolle per rispolverare una tradizione molto viva tra fine ‘800 e inizio ‘900: sembra strano, ma lo spumante si esportava anche, a Villa Torlonia di San Mauro Pascoli c’era un direttore illuminato e capace, e il capo azienda era il padre di Giovanni Pascoli, dai cui scritti sappiamo quanto erano apprezzati quegli spumanti. Oggi si produce soprattutto con metodo Martinotti, il classico è poco, la base Trebbiano, minimo 70%, può essere integrata con Chardonnay, Pinot Bianco, Sangiovese vinificato in bianco e pochissimo Famoso".