Martedì 30 Aprile 2024

Una bufera sul palco chiamata Rascel

Centocinquantasette centimetri di genialità tra teatro, cinema, musica e tv. Disse: sono così distratto che mi sono dimenticato di crescere

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di Claudio Cumani

Un metro e 57 centimetri. Piccoletto? Sì, ma geniale. Diceva: "Sono distratto, ma così distratto che mi sono dimenticato di crescere". Renatino con l’elmo e lo sciabolone del Corazziere, Renatino che intona molto meglio di Dean Martin la sua canzone Arrivederci Roma, Renatino sgambettante con la tonaca di padre Brown su un campetto di calcio. Quante facce, quanti talenti, quante vite ha avuto un artista come lui? A trent’anni dalla morte (spirò nella notte del 2 gennaio 1991 in una clinica romana), ripensare a una figura come Renato Rascel significa attraversare un secolo, il Novecento, carico di tragedie e sorrisi, ripensare a una straordinaria generazione di attori (Dapporto, Macario, Bramieri...) pronti a scavalcare non solo metaforicamente le montagne, ritrovare il piacere di un artista che sapeva ricordarci che ‘domenica è sempre domenica’ ma anche condurci in equilibrio sulla corda surreale della comicità.

Guardando Courteline e anticipando Ionesco.

"Ho voluto portare al pubblico personaggi che non fossero vincitori ma sconfitti – diceva – . Perché anche il mio Napoleone rappresentava il dramma di un uomo piccolo". Quel cognome, Rascel, se l’era scelto agli inizi della carriera, storpiando il marchio della cipria francese Rachel molto nota a quel tempo.

In realtà si chiamava Renato Ranucci, era nato a Torino il 27 aprile 1912 ed era figlio d’arte, essendo il padre cantante d’operetta e la madre ballerina classica. E, siccome già allora con la cultura si faticava a mangiare, il padre pensò bene di indirizzarlo su tutt’altra strada facendogli fare il garzone, il calderaio e il muratore.

Ma il ragazzo aveva talento, eccome: entra nel coro delle voci bianche della cappella Sistina, suona la batteria in un complessino jazz, balla divinamente e canta con voce sicura qua e là nei locali. Arriva la prima scrittura nell’operetta e piano piano la definizione di una nuova formula di umorismo. Una comicità ingenua e disarmante basata spesso sull’improvvisazione che sembra quasi (in quella selva di battute non-sense alla Marcello Marchesini) esorcizzare gli ultimi cupi anni Trenta. Una sera in camerino butta giù due frasi di una filastrocca (È arrivata la bufera, è arrivato il temporale...) che alcuni leggono riferite alla guerra che aleggia sull’Europa.

Una recitazione matematica, dosata sul ritmo e la mimica, avrebbero detto di lui i critici. Ma all’inizio non era stato facile imporre il nuovo genere sui palcoscenici dei teatri di rivista: bordate di fischi si alternavano a convinti applausi e il Piccoletto non mollava. È nel Dopoguerra che la sua carriera prende una svolta: mentre lui impazza sulle ribalte dell’avanspettacolo, Alberto Lattuada (siamo nel ‘52) lo chiama per girare Il cappotto da Gogol, il film che gli procura un Nastro d’argento e che rappresenta, insieme a Policarpo ufficiale di scrittura di Mario Soldati e Il corazziere di Camillo Mastrocinque forse il suo apice cinematografico.

Grande amante della letteratura russa, avrebbe poi tentato anche la regia dirigendo per il grande schermo se stesso e Valentina Cortese ne La passeggiata sempre da Gogol. Ma la commedia musicale non poteva aspettare. Garinei e Giovannini prima lo chiamano a recitare nella compagnia di Wanda Osiris e poi gli affidano titoli fortunati come Attanasio cavallo vanesio, Alvaro piuttosto corsaro, Tobia la candida spia. Non c’è campo nel quale lui non si sia misurato.

Nel ‘60 vince in coppia con Tony Dallara il festival di Sanremo cantando Romantica, poco tempo dopo inizia a scrivere fiabe per bambini, e poi arrivano il varietà con Delia Scala e la prosa accanto a Walter Chiari (La strana coppia di Neil Simon). E ancora tv (dai Caroselli ai Racconti di padre Brown passando per Senza rete), incontri importanti (un cammeo per Zeffirelli nel Gesù), nuove sfide. In Alleluja brava gente si ritrova al fianco di un giovane Gigi Proietti, chiamato a sostituire l’infortunato Domenico Modugno.

L’addio alle scene avviene nell’86 come forse Renatino avrebbe voluto: un caposaldo del teatro moderno, Finale di partita di Beckett, diretto da Giuseppe Di Leva e recitato accanto all’amico Walter Chiari, per mostrare come l’occhio di Buster Keaton si possa posare sul Teatro dell’Assurdo. Sposato tre volte (con Tina De Mola, Huguette Cartier e Giuditta Saltarini da cui avrà il figlio Cesare), gran tifoso della Roma, protagonista di lunghi tour internazionali (una foto d’epoca lo ritrae con l’imperatore giapponese Hirohito), Rascel lascia una grande lezione. Che è dietro alla parola fantasista si nasconde una dura scuola fatta di ironia e levità.

Ripeteva: "Non ho mai voluto il successo grazie alle gambe delle ballerine. Ho solo raccontato, con un linguaggio sfasato, un uomo reale".

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