Molto spesso, purtroppo, ciò che rimane del bagaglio filosofico accumulato durante gli anni del liceo si riduce a poche frasi o a sintetici slogan, dal "Cogito ergo sum" di Cartesio all’"Homo homini lupus" di Hobbes fino al famosissimo "Il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me" di Immanuel Kant, considerato – al netto di qualche rara eccezione – il più grande filosofo dell’era moderna, del quale ricorrono oggi i trecento anni della nascita, avvenuta a Königsberg (oggi Kaliningrad) il 22 aprile del 1724.
Preciso, metodico, al punto che Giovanni Papini, forse un po’ troppo sbrigativamente, lo definì "un borghese onesto e ordinato", è fuor di dubbio che Kant abbia condizionato il pensiero filosofico degli anni a venire e che la storia della filosofia lo annoveri comunque fra i “grandi”, se non il più grande.
Ma tornando allo slogan kantiano, tratto dalla conclusione della Critica della ragion pratica e finito come epigrafe sulla lapide di bronzo della sua tomba, mi piace ricordare la considerazione che lo precede a dimostrazione dei suoi interessi per la scienza e in particolare per il cielo: "Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente: e la prima è il cielo stellato…"
La sua prima opera, pubblicata nel 1747 quando ancora era studente, tratta infatti l’argomento strettamente scientifico delle “forze vive” sul quale già si erano cimentati Cartesio e Leibniz e i lavori successivi sono dedicati alle eventuali variazioni dell’asse di rotazione della Terra e al suo eventuale “invecchiamento”, opere che precedono il suo primo lavoro più importante, la Storia universale della natura e teoria del cielo, con la quale avanza l’ipotesi, ancora oggi accettata, che il nostro sistema solare abbia avuto origine dalla condensazione di una nube primordiale di gas e di polveri. Nel 1796, senza conoscere l’ipotesi di Kant, Pierre-Simon de Laplace propose una analoga teoria con basi fisiche più solide e nell’Ottocento questa ipotesi prese il nome di entrambi (ipotesi di Kant-Laplace).
La fama di Kant, però, è legata alle famose tre Critiche (della ragion pura, della ragion pratica, della facoltà del giudizio) che riassumono il suo denso pensiero. È stato detto che Kant operò in filosofia una sorta di “rivoluzione copernicana”. Copernico, infatti, non riuscendo a spiegare i movimenti dei pianeti con il modello di Tolomeo che poneva la Terra al centro, invertì il rapporto fra la Terra e il sole ponendo il sole al centro. E allo stesso modo Kant per spiegare i fondamenti della conoscenza invertì il rapporto fra il “soggetto conoscente” e l’“oggetto conosciuto”.
In altre parole Kant afferma che non è la mente umana ad adattarsi alla realtà ma è la realtà stessa che deve ubbidire alle strutture della mente (le famose “forme a priori”) attraverso le quali l’uomo la percepisce.
Nel 1784 una rivista chiese ai lettori una definizione di Illuminismo e Kant, oggi considerato il suo massimo esponente, rispose che l’Illuminismo è "l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità" e con lo slogan ripreso da una Epistola di Orazio "sàpere àude" (osa sapere), esortò a usare in ogni campo le risorse della ragione, esercizio che ai nostri giorni sembra essere andato in disuso.
Kant muore nella sua Königsberg, città dalla quale mai si era allontanato, il 12 febbraio 1804 all’età di ottant’anni dopo un lento declino che gli aveva fatto perdere la vista e la capacità di concentrazione. L’aneddotica gli attribuisce queste sue ultime parole: "Es ist gut" (Così va bene). Un commiato da vero filosofo.