Mercoledì 24 Aprile 2024

“Message” in orchestra: la sfida di Copeland

Il batterista dei Police reinterpreta il repertorio della band con arrangiamenti sinfonici. "Potenti, maestosi. Ma soprattutto selvaggi"

“Message“ in orchestra: la sfida di Copeland

“Message“ in orchestra: la sfida di Copeland

Dopo aver firmato il musical sulle streghe della Val d’Ossola interpretato l’estate scorsa sotto le stelle del Tones Teatro Natura da Irene Grandi e l’immersione paesaggistica di Divine Tides, l’album in condominio con Ricky Kej che due mesi fa gli ha fruttato il settimo Grammy Award, Stewart Copeland torna a guardare ai Police in cui ha militato insieme a Sting e Andy Summers con un anno dedicato tutto all’epopea dei tre. In questi giorni, infatti, il batterista americano, settant’anni, si trova a Londra per le prove di Stewart Copeland’s “Police Deranged for Orchestra“, in scena venerdì prossimo al London Coliseum per una notte sola nell’attesa di sbarcare in Italia a luglio con tappe pure ad Umbria Jazz il 14, al Vittoriale di Gardone Riviera il 24 e in Piazza Santissima Annunziata a Firenze il 25. Tour messo in strada per sostenere le fortune dell’album omonimo, rivisitazione orchestrale del sacro repertorio in uscita il 23 giugno, e il volume Stewart Copeland’s Police Diaries 1976-9, in libreria a ottobre. A parlarne è lui stesso.

Stewart, ci vuole coraggio a mettere mano alle canzoni della sua ex band.

"Un po’ sì. Non nascondo che l’anno scorso, quando ho iniziato a presentarmi in pubblico con queste mie libere rielaborazioni del passato, ho temuto di poter essere inseguito col forcone da qualche fan della prima ora, ma non è successo perché tutti possono ritrovare nel mio spettacolo in un modo o nell’altro i temi che hanno fatto da colonna sonora alla loro vita. Anche se in veste leggermente diversa. Avere un bagaglio emotivo da sfruttare in concerto, infatti, è una cosa fantastica; se vuoi appiccare fuoco all’edificio, suona al pubblico che hai davanti una canzone che ama".

La sua è una rilettura "cinematografica" del repertorio Police come quella fatta vent’anni fa, proprio in Italia, con l’album Orchestralli delle sue composizioni per il cinema e per il balletto?

"Sì, l’orchestra è uno strumento fantastico. L’ho scoperto quarant’ anni fa, ma solo ora lo padroneggio bene, e voglio usarlo nell’opera come nel cinema, nella classica come nel rock. Mi ci sono imbattuto lavorando per il cinema, quindi su commissione. Un artista segue il proprio istinto, ma un professionista fa quel che gli viene chiesto. Così ho imparato a lavorare con l’orchestra e ho sviluppato un grande amore per il suo poter essere sentimentale, potente, maestosa".

E l’idea di riprendere in mano i brani del passato?

"Tutto è cominciato a metà anni duemila lavorando a Everybody stares: The Police inside out il documentario sulla band che ho presentato al Sundance Festival attingendolo dai filmati amatoriali realizzati durante il nostro tour del 1978. Per adattarle alle immagini, ho dovuto destrutturare certe nostre canzoni e reinventarle, anche se sempre in modo molto “poliziesco“. Ho capito che la cosa funzionava".

Il precedente di Symphonicities, l’album orchestrale concepito da Sting sulle musiche dei Police nel 2010, l’ha condizionata in qualche modo?

"Assolutamente no. I suoi riarrangiamenti, infatti, erano molto buoni e molto rispettosi delle versioni originali. Io nei miei ho messo più coraggio e impunità. Mi sono preso molte più libertà di quante non possa un orchestratore e questo mi ha permesso di spingere quei classici dei Police in direzioni selvagge".

Qual è il capitolo di Stewart Copeland’s Police Diaries che ama di più?

"In casa ho sempre tenuto una serie di scatole da scarpe piene di diari, appunti, idee fissate ai tempi della formazione della band, oltre a ricevute, biglietti aerei, orari di voli e tour bus, provini fotografici e quant’altro, tutto materiale che ho utilizzato in questo volume da cui penso affiori innanzitutto l’euforia ingenua mia e di Sting nelle prime due-tre settimane di vita della band; il trasferimento a Londra, le prime esperienze con Henry Padovani alla chitarra. Anche senza una Roxanne, una Message in a bottle, una Every breath you take ancora in repertorio eravamo felici, credevamo completamente l’uno nell’alto, le ore erano lievi e la vita una promessa".

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