
Elena Rausa
Firenze, 17 luglio 2024 – Milano, anni Novanta. Ogni giorno Caterina raggiunge l’ospedale dove è ricoverato il cugino Michele, si siede e aspetta. L’infermiera alla quale ogni tanto domanda se lui riesce a sentirla, le risponde che non ci sono certezze in casi del genere; c’è chi prova con la musica, qualcuno legge a voce alta, altri parlano e fingono di non accorgersi delle risposte che non arrivano mai. Caterina ha comperato un quaderno, fogli spessi e bianchi su cui ricostruire la storia sua e di Michele, e della loro famiglia: è un modo per riordinare quelle "tessere della memoria” che compongono il passato, e per tracciare una strada che ricondurrà Michele a casa, quando si sveglierà stordito e confuso, come un cane bastardo strappato troppo presto alla tana.
I primi ad affacciarsi sulla pagina sono naturalmente Sandro e Teresa, i genitori di Caterina. Quando lei è nata Sandro lavorava per una grande multinazionale americana: giacca e cravatta dal lunedì al giovedì, il venerdì un anticipo di week-end in camicia; Teresa all’epoca era la più giovane insegnante di matematica dell’istituto tecnico, disegnava sulla lavagna con i gessetti colorati e nella voce aveva la poesia di certi giorni d’estate. Michele aveva quattro mesi quando sua madre, Anna, la sorella di Sandro, lo lasciò tra le loro braccia. Piccola, agile, uno scricciolino col naso affilato, labbra carnose e una passione per violino e viola, in quei giorni di vent’anni prima Anna non poteva prendersi cura del suo bambino. Inseguiva la sua guerra. Una guerra di cui i giornali del tempo non parlavano apertamente, ma che era visibile nei bastoni con i drappi rossi, nelle bombe incendiarie durante i cortei, nei pestaggi, nelle spranghe, nei coltelli, nelle piazze esplose e piene di sangue, nei treni saltati. Qualcuno diceva: è come in Cile, e allora poteva capitare che una ragazza come Anna pensasse che fosse giunta l’ora di suonare tutt’altra musica, la musica del tempo, il triste spartito degli anni di piombo.
Come uno scrigno dei ricordi, il quaderno di Caterina si affolla di vicende, destini e storie trascorse finché, come da ogni scrigno che si rispetti, non affiora da un doppio fondo una rivelazione inaspettata, un segreto che muterà radicalmente non soltanto il rapporto tra Caterina e Michele, ma la sua stessa esistenza.
Seconda opera della milanese Elena Rausa dopo "Marta nella corrente”, “Ognuno riconosce i suoi” è uno struggente romanzo per accomiatarsi con dolore e tenerezza (come suggerisce la frase di Cristina Campo messa a mo’ di esergo) dalle pagine recenti della nostra storia “prima che siano estinte”. Insieme a “Piove all’insù” di Luca Rastello è il romanzo più vero, intenso e lacerante sugli anni di piombo.
["...perché un’amica è proprio quello che serve”.
“Ho pensato che è con le cose storte che si diventa grandi”.
“Tutto quello che so della morte del Biondo sono frasi rubate alla festa per il suo funerale. Dico festa perché fu proprio una festa: dal Friuli tanti parenti, salame, formaggio e il vino che scioglieva la lingua e qualcuno, persino, lo faceva ridere e cantare”.
“La settimana dopo si ritrovano per caso sullo stesso tram e lui scende in Ventidue Marzo dicendo che deve vedere un’altra. Lei si sente morire, ma abbozza per conservare almeno la dignità e perché sa che sono pochi gli uomini capaci di reggere le lacrime di una donna”.
“Oggi, quando torna al paese, prova a scimmiottare una cadenza che non ha mai perso, ma ti si stringe il cuore per come è goffa. Non c’è verso, da quando parti diventi straniero, dappertutto e per sempre”.
“Sarà che ho sempre avuto terrore delle cose che cambiano. Già allora spiavo le nuvole negli occhi di Teresa, i silenzi di Sandro se duravano troppo. Pensavo: si lasciano, ci lasciano, si rompe tutto. Ma poi c’erano certe giornate piene di luce anche d’autunno o d’inverno e il sole che tramontava tingeva di rosso l’azzurro. Oppure vinceva la nebbia, come infatti ti aspetti, e pioveva, ma così piano da non usare l’ombrello. Anche grigia Milano è bella”.
“Per chi non s’adatta c’è sempre uno scotto da pagare e qualcuno come Lucia che paga di più. Poi, chissà, saranno arrivati gli altri. Ne arrivano anche oggi e questa volta è il mare che li porta, la guerra li spinge. C’è sempre qualcuno che insegue un sogno o fugge una guerra, è così che gli ultimi smettono di essere ultimi”.
“Pensavo così e ho cercato di concentrarmi sull’ultima volta che il mio corpo ha sentito qualcosa di bello. Sensazioni recenti, di quelle che ti porti ancora attaccate alla pelle: un sapore, una voce, una carezza, l’ultimo bacio di Pietro già sulla porta. Nemmeno un bacio in realtà, la mia fronte attaccata alla sua, i nasi che si sfiorano, guardarsi, chiudere gli occhi, aspettare così un tempo infinito. Ho rivisto quei suoi occhi buoni, da bambino, da cane pastore: parti con me. Ma io appartengo alla razza di quelli che restano e tutt’al più aspettano gli altri tornare, così ho risposto e l’ho perso”.
“In questo momento dove sei, che cosa sei diventato? E poi che c’entro io con te, la storia tua con la mia? Penso che quel che vale di noi sta tutto in questi pochi grammi di memorie. C’è una storia da raccontare e nessuno che voglia raccontarla sul serio e allora quello che è stato si perde. Io pure dimentico e me ne dispiaccio, mi pare una cosa ingiusta, perché così non si trova chi dia un nome alle nostre paure di allora e agli assenti, che restano tanti e insepolti”.
“Guarda che se anche mi baci non è un bacio che porti via a Sandro, perché in questo momento Sandro non c’è. Era il mantra di Bruno: la fedeltà a vent’anni è un delitto, come fai anche soltanto a pensare di dire ‘per sempre’ quando ‘per sempre’ vale anche ‘mai più’? Si può escludere tutto il resto senza sapere niente del resto?”.
“È andata come è andata, abbiamo avuto un’infinità di ragioni per lasciarci e non una che sia forte abbastanza da tenerci insieme. Eppure io non riesco a decidermi, non la so pensare una vita senza Sandro e senza la paura di perderlo. Magari anche per lui è lo stesso e questa è la migliore forma d’amore che ci sia capitata”.
“Alla fine, mi pare, non siamo diversi dagli aironi, dalle balene e dagli altri animali, seguiamo tutti un istinto che ci porta a migrare. Persino io, che mi credevo stanziale, ho avuto il mio viaggio, frugando nella nostra storia alla ricerca di un senso che forse non c’è. È stato il mio bisogno raf inato, inutile ed essenziale almeno quanto la tua tentazione di perderti rischiando a ogni tuffo una posta più alta. Non conta lo spazio percorso o la meta, tutti in qualche modo partiamo. A volte pensiamo di restare e invece non siamo già più lì. (...) Mi piace pensare che un giorno ci ritroveremo. Tu finalmente mi parlerai di te e io pure avrò qualcosa di mio da raccontare. Conteremo i passi, la mia strada e la tua, i segni del tempo e quelli più antichi che ci siamo fatti insieme. Alla fine di tutto ci riconosceremo”.]