Roma, 4 aprile 2024 – Quando iniziò a morire Kurt Cobain? Per molti il 3 marzo 1994, praticamente un mese prima dell’effettivo decesso. Kurt e Courtney Love (sua moglie appena rientrata da Londra) sono nella stanza 541 dell’hotel Excelsior a Roma. Cobain fino a qualche ora prima ha fatto il turista: shopping, visite guidate e come cadeau (tra sacro e profano) è riuscito a portare via due candele lunghe dal Vaticano.
Courtney disse in un’intervista, poco dopo la morte del marito, che "quel giorno staccò perfino un pezzo di Colosseo per lei". Ma quella notte invece fu la più lunga e la più pericolosa. Quando Courtney si risvegliò al mattino, Cobain era privo di sensi sul pavimento della stanza di hotel, con in mano tre fogli di carta appena scritti. Non era un’overdose di eroina, questa volta. Cobain aveva ingoiato sessanta pillole di Roipnol (una sostanza dieci volte più potente del Valium). E in quella lettera c’era scritto che, come gli aveva consigliato il suo medico, citando l’Amleto di Shakespeare, doveva scegliere tra la vita e la morte e lui stava scegliendo la morte. Finì ricoverato al Policlinico Umberto I. Un mese dopo si sarebbe sparato con un fucile, nel suo cottage a Seattle.
Sono passati trent’anni dalla sua morte. E non c’è mai stato nella storia del rock, anche nel maledetto club dei 27 (l’età di illustri cantanti deceduti prematuramente), uno che come lui abbia incarnato in un intreccio inestricabile la creazione e la perdizione. Cobain creò praticamente dal nulla un suono e un genere che tutti avrebbero poi definito in fretta e genericamente “grunge“, che non poteva essere solo una questione di cardigan slabbrati e jeans strappati e che soprattutto non aveva nulla a che vedere con il passato.
Non era figlio del punk. Era figlio della disperazione sì, quella con cui aveva avuto a che fare sin dal primo giorno, soprattutto se ti capita di nascere (come era successo a lui) nella provincia americana. E quando non hai un orizzonte davanti, devi creartelo.
C’è un aneddoto – presente nel libro Più pesante del cielo di Charles R. Cross, l’opera più completa su Cobain, appena ristampata da Il Saggiatore – che il cantante dei Nirvana amava raccontare: a 17 anni rubò i fucili del patrigno per barattarli con una chitarra elettrica.
Quando iniziò a morire allora Cobain? Probabilmente già nel 1991, quando Nevermind non era ancora uscito. L’album arriva nei negozi il 13 settembre, ma in quell’estate i Nirvana sono già impegnati nel loro primo tour europeo. Arrivano al Reading Festival con settantamila persone davanti, quando Cobain sale sul palco e si avvicina al microfono, la folla di colpo si zittisce. Come se stesse per parlare un sovrano, racconta il road manager Alex Macleod che aggiunge: "Avevano qualcosa di impudente i Nirvana davanti a quella folla".
Solo quattro anni prima Cobain aveva suonato per la prima volta in una festa privata, tra il baccano della gente che non aveva nessuna voglia di ascoltarlo. Alla fine di quell’anno i Nirvana suonano anche al Cow Palace di San Francisco: i Pearl Jam aprono la serata e regalano un pezzetto di Smells like a teen Spirit, Eddie Vedder dice al pubblico, scherzando, di ricordarsi che loro sono stati i primi quella sera a suonare quel pezzo (diventato immediatamente il classico di quella stagione). Un Keanu Reeves estasiato, cerca in tutti i modi di bloccare Cobain e i Nirvana. Se si parte, dunque, dal 13 settembre 1991 e si arriva al 5 aprile 1994: ci sono 924 giorni a separare le due date. Meno di mille giorni è durata la fama di Cobain in vita. In vita, appunto. Perché la sua parabola che assomiglia a quella di un eroe tragico novecentesco che sa che il suo destino è segnato (con la morte che lo aspetta a breve), è andata al di là delle centinaia di dischi d’oro (che lui bruciava nel microonde), arrivando invece a segnare una generazione.
La Generazione X che ne ha preso i diversi aspetti. La creatività innanzitutto, perché in quegli anni (i Novanta), le cantine (e non solo) si riempivano di gruppi giovanili che inseguivano il proprio sogno. La mamma di Cobain proprio nel 1991 scrisse all’Aberdeen Daily World una lettera che fu intitolata “Secondo mamma un metallaro locale se la cava alla grande”, in cui riconosceva che suo figlio ce l’aveva fatta.
Ma anche l’b, di cui quella scena non sarà immune anche negli anni successivi alla morte di Cobain: da Laine Staley (Alice in Chains) a Chris Cornell (Soundgarden), passando per Scott Weiland (Stone Temple Pilots). Bill Clinton, allora presidente degli Stati Uniti, pensò di fare un discorso alla nazione dopo la morte di Cobain per scongiurare l’effetto emulazione. Ma Eddie Vedder lo fece desistere.
Alla fine nel caso di Cobain la disperazione lo portò a essere se stesso, cosa che la gente gli riconosceva e per questo lo amava, quasi lo idolatrava. Ma non trovò poi il coraggio nel gestire (per non soffocare) tutta quella devozione che sfociava praticamente in una fede indiscussa nei suoi confronti. "Non fare di me un idolo o mi brucerò". Proprio come cantò, per la prima volta, qualche mese prima in quello stesso 1994, Giovanni Lindo Ferretti nel disco di debutto del Consorzio Suonatori Indipendenti. Parole che suonano simili a quelle (ben più sinistre) che Cobain scrisse nella sua lettera di addio: "Meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente".