Lunedì 20 Maggio 2024
Antonio Del Prete
Esteri

Gli sfollati nella trappola di Rafah. Scudi per Hamas, in fuga dai missili: "Noi esausti e senza più un posto"

La città più a Sud della Striscia ospita oltre un milione di profughi, Tel Aviv vuole evacuarne 100mila. Poi scatterà l’invasione. Il portavoce dell’esercito israeliano: "Piano per un’offensiva di un anno"

Roma, 9 maggio 2024 – Scappano da mesi come formiche stordite dalla paura. Camminano da una città all’altra; gridano senza più voce, gli sfollati palestinesi. Piangono i morti e le loro vite disgraziate. Le impronte delle scarpe non disegnano uno sbocco sulla sabbia arsa dalle bombe. Non c’è una via d’uscita dalla Striscia. "Gaza è una città fantasma, Khan Younis è una città fantasma", racconta Aya al-Arja alla tv qatariota Al Jazeera, oscurata nei giorni scorsi dal governo Netanyahu. Aya è una giovane donna dalla voce calma con lo sguardo e l’abito neri come il lutto. "Siamo stanchi, esausti – dice a invocare pietà –, abbiamo lasciato Rafah per venire ad al-Mawasi, ma non c’è un posto per noi, ovunque è pieno di sfollati". Ad al-Mawasi l’esercito israeliano ha organizzato una ‘zona umanitaria’ dove far confluire l’evacuazione da Rafah, la città più a sud della Striscia. È qui, nell’ultimo fortino di Hamas, che Tel Aviv sta preparando un attacco via terra. Ci abitavano circa 270.000 persone prima del 7 ottobre, ora più di un milione. Troppi per affrontare un’operazione militare. Nei piani israeliani circa 100mila sfollati dovrebbero riparare ad al-Mawasi e a Khan Younis.

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I profughi palestinesi lasciano la città di Rafah
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Un esodo, l’ennesimo, per questa massa di disperati. Sono civili, ma Hamas li considera la prima linea di un esercito dispiegato nei tunnel e dietro gli angoli di palazzi monchi. Scudi umani, vittime da offrire agli occhi compassionevoli degli occidentali. Per gli egiziani, che li respingono alla frontiera, sono parenti a cui esprimere solidarietà solo a debita distanza. E da mesi lo Stato ebraico chiede loro di spostarsi. Prima a Sud, poi a Sud, infine ancora più a Sud. Sotto i missili.

"Ora l’esercito israeliano vuole che andiamo a Khan Younis, dove c’è una carestia, mancano elettricità, acqua e ospedali", grida Ibrahim Barbakh. La maglietta grigia di un noto stilista italiano, gli occhi febbricitanti. Le sue braccia si allargano, si agitano per cercare un appiglio che non c’è: "Dove sono i diritti umani?". Layla Shikh Eid è affetta da insufficienza renale. È anziana. E non ha scelta: "Cosa si aspettano che faccia? Resto a Rafah anche se mi faranno crollare l’ospedale sulla testa".

La malattia è uno dei pochi superstiti di una quotidianità spazzata via dalla guerra. In sette mesi di combattimenti le Forze di Difesa israeliane hanno trasformato questa striscia di terra lunga quaranta chilometri in una guernica di sabbia e macerie. Un carosello sgangherato di esseri umani, asini, carretti e angoscia fugge senza requie su strade lastricate da mine e ordigni inesplosi. A Ovest il mare, a Nord, Est e Sud i nemici, dal cielo piovono razzi. E i rifugi scavati sotto città ormai spettrali sono appannaggio di Hamas, che gioca a poker su due tavoli: il campo di battaglia e il tavolo del negoziato. Ieri mattina i miliziani hanno affrontato combattimenti nella zona orientale di Rafah. E ora minacciano di far saltare la trattativa finalizzata al cessate il fuoco e al rilascio degli ostaggi israeliani. "Netanyahu sta riportando tutto al punto di partenza nel tentativo di guadagnare tempo", attaccano. Dall’altra parte della barricata non giungono notizie confortanti, anzi. Daniel Hagari, portavoce dell’esercito ebraico, spiega all’opinione pubblica che i vertici militari hanno presentato il piano per ostilità che dovrebbero durare un anno.

E pensare che martedì sera l’accordo per la tregua era stato festeggiato dai cittadini di Gaza con la percussione esasperata di pentole, coperchi e altra ferraglia. Tanto rumore per esorcizzarne uno più spaventoso. Tanto rumore per nulla. "La risposta accettata da Hamas è lontana dalle richieste di Israele", ha fatto sapere poco dopo il governo israeliano. Ma ai bimbi di Rafah non è stato raccontato per farli andare a dormire contenti. Almeno per una notte. Ce n’è una più lunga da superare. Serve fede. Come quella di un bimbo ritratto da uno degli infiniti fotogrammi di una guerra lontana e vicina insieme. È in piedi davanti a un cratere con la maglietta rossa, i blu jeans e le mani giunte. Sembra pregare. Come capita ai nostri figli nei loro lettini, spaventati da un incubo.

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