Lunedì 29 Aprile 2024

Città fantasma, armi e fiumi di denaro. La Cina e la corsa all'Africa

Cresce l'influenza della Cina nel Continente nero. Con Europa e Stati Uniti gara a tre per il primato economico. Ma gli esperti avvertono: "Non parlate di neocolonialismo"

Bambini africani con le bandierine della Cina

Bambini africani con le bandierine della Cina

Luanda, 23 settembre 2018 - Spettrali distese di moderni palazzi alti otto piani; strade dall’asfalto lucido, sgombre di automobili; scuole nuove di zecca ma senza scolari; negozi dalle vetrine che non riflettono nemmeno l’ombra di un cliente. Benvenuti in Angola, a Nova Cidade de Kalimba, emblema delle città fantasma costruite negli ultimi anni da Pechino nel continente africano. Dal Laos alla Nigeria fino all’Angola, appunto. Kalimba è il frutto di un investimento di oltre 2,5 miliardi di dollari profuso, in cambio di concessioni petrolifere (Luanda è il maggior produttore di oro nero in Africa, seguito da Nigeria e Libia), dalla banca statale cinese China international trust and investment corporation, nel duplice intento di accelerare lo sviluppo del Paese e, business for business, di attirare il maggior numero possibile di residenti medio-borghesi. “L’Angola, come altri Stati africani, da tempo sta fronteggiando il fenomeno massiccio dell’esodo verso le città della popolazione rurale – spiega il professor Arrigo Pallotti, docente di Storia e Istituzioni dell’Africa all’Università di Bologna –. Uscito da una sanguinosa guerra civile, in atto dal 1975 al 2002, il governo di Luanda, per la ricostruzione post-bellica, ha preferito affidarsi a Pechino piuttosto che al Fondo monetario internazionale. Evidentemente gli aiuti di quest’ultimo erano condizionati da vincoli di trasparenza troppo stringenti per le autorità locali”.

Sta di fatto che per la Cina gli affari immobiliari languono a Kalimba. Come emerso da un’inchiesta della Bbc, del primo lotto di 2.800 appartamenti, in vendita da 75mila a 130mila dollari, negli iniziali dodici mesi di trattative, solo 200 sono stati acquistati. Un po’ di ossigeno al mercato made in China si è avuto di recente col piano di incentivi per gli affitti predisposto dal governo angolano. Ma il target di quota 500mila abitanti per la new city resta lontanissimo in un Paese nel quale (è meglio ricordarlo) un lavoratore in media racimola poco più di un euro al giorno e ingrossa le baraccopoli. L’accesso al credito bancario poi è una chimera per la stragrande maggioranza della popolazione.

Che sia o meno un buon investimento quello delle città fantasma è comunque uno degli aspetti più significativi (e inquietanti, almeno a detta di chi scorge in prospettiva l’occasione per Pechino di aprire sussidiarie di aziende inquinanti) della penetrazione economica cinese in Africa. A inizio mese il presidente Xi Jinping, aprendo il ‘Forum on China-Africa’, ha promesso risorse per 60 miliardi di dollari da impiegare, nel biennio 2019-2021, nella realizzazione di strade, porti, oleodotti e canali commerciali. Un piano fotocopia, sia nel quantum, sia nella sua destinazione, di quello varato appena tre anni fa. Nello specifico stavolta Pechino investirà 15 miliardi in aiuti, prestiti a interessi zero e finanziamenti agevolati; 20 miliardi in una linea di credito dedicata; 10 miliardi nel fondo di sviluppo ‘China-Africa’; 5 miliardi in fondi speciali per l’import dal Continente nero. Saranno ammodernizzati porti come quelli di Gibuti, nell’omonimo Stato del Corno d’Africa, Tripoli, nella turbolenta Libia, Port Said (Egitto) e Lagos, in Nigeria. 

La campagna africana dell’ultima potenza comunista sulla faccia della Terra ha avuto inizio una ventina di anni fa. E non dal nulla. Le radici risalgono al periodo a cavallo fra gli anni ’60 e 70, quando Mao Tse-tung con lungimiranza si propose ai neonati governi subsahariani come affidabile partner logistico alternativo (al blocco americano e a quello sovietico) nella costruzione di opere pubbliche post colonizzazione europea. La prima relazione commerciale fu stretta con la Tanzania di Julius Nyerere, il padre nobile della via africana al socialismo. Dalla partnership discese la costruzione della ‘Freedom Railway’, 1.860 chilometri di rete ferroviaria che ancora oggi collegano il porto di Dar es Salaam, la città tanzana più dinamica (anche se la capitale è Dodoma), con lo Zambia. Che allora, grazie a questa infrastruttura, si trovò nelle condizioni di far viaggiare merci e persone senza dover passare per i porti del Sudafrica e della Rhodesia, in quella fase geopolitica retti da regimi autoritari e razzisti. 

Storia a parte, l’attualità oggi racconta di un’influenza commerciale di Pechino in Africa cresciuta in maniera vertiginosa negli ultimi anni. Solo nel 2017 i contratti in loco sono saliti del 14%, sfondando quota 170 miliardi di dollari. Non sempre si tratta di affari ‘pacifici’. L’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma, ripreso dal sito d’informazione ‘Jeune Afrique’, denuncia come la vendita di armi cinesi nel continente sia aumentata, nel periodo 2013-2017, del 55%. La quota di Pechino in questo mercato, riferisce sempre la stessa fonte, si attesta ormai al 17% contro l’11% degli Stati Uniti. A ciò si aggiunge una presenza militare sul campo: truppe cinesi combattono in Sud Sudan e in Nigeria dove fronteggiano gli islamisti di Boko Haram. Il boom dei contratti, l’ascesa nella vendita d’armi, l’esercito mandarino sui fronti caldi. Questi come altri elementi hanno spinto tempo fa il presidente dell’Europarlamento, Antonio Tajani, a dire che “l’Africa sta diventando una colonia della Cina”. Un’accusa respinta al mittente indirettamente dal presidente Xi Jinping che, al ‘Forum on China-Africa’, ha assicurato, in scia con la tradizione neutralista dei suoi predecessori, il rispetto dei ‘cinque no’ nelle relazioni con gli Stati africani: no alle modifiche dei piani di sviluppo autoctoni, no ad interferenza nelle questioni interne, no all’imposizione di diktat da parte di Pechino, no a legami finanziari di assistenza, no alla ricerca di vantaggi politici.

Di là gli attacchi, di qua le difese. Ma la realtà dove sta? Davvero la Cina agisce da potenza neocoloniale oltre il Mediterraneo? Oppure, considerando anche il fatto che Bruxelles sta vagliando l’ipotesi di un Piano Marshall per l’Africa al fine di frenare gli sbarchi di migranti sulle sue coste, nel Continente nero si sta giocando una partita serrata per il primato economico? "Parlare di colonialismo nel 2018 è anacronistico – risponde il professor Pallotti –. Gli Stati africani hanno una loro struttura, una loro indipendenza. Non sono più in balia delle potenze straniere: le concessioni per le materie prime, per esempio, oggi si scambiano in maniera oculata con importanti opere di urbanizzazione e interventi nel sociale. La questione semmai è un’altra". Quale? "In Angola, Nigeria e altrove gli Stati Uniti e l'Europa vedono sempre più minata la loro leadership commerciale dall’intraprendenza di Pechino – continua  –. Da due la sfida è passata a tre". Con quali riflessi per la gente comune? "Nessuno, a voler essere obiettivi – puntualizza Pallotti –. La Cina è da più parti accusata di non impiegare manodopera locale nei suoi cantieri in Africa, ma questo in generale non è vero, anche se poi gli operai africani spesso lavorano in condizioni di scarsa sicurezza e sottopagati". Non che il discorso cambi molto, se il datore di lavoro è europeo o americano. "Per i poveri il problema è sempre lo stesso – chiosa il professore –: arrivare sani e salvi a fine giornata".