Roma, 27 settembre 2024 – Nel 2022, a livello mondiale, sono stati generati 62 miliardi di kg di rifiuti elettronici, pari a circa 8 kg l'anno a persona. Meno di un quarto di questi rifiuti sono stati riciclati in maniera corretta. Si tratta dunque di un problema di enorme portata, acuito da un fenomeno, quello che vede le aziende produttrici immettere sul mercato dei prodotti con un fine vita prestabilito. Tale pratica è detta "obsolescenza programmata".
Alle origini dell'obsolescenza
Per capire un fenomeno apparentemente moderno, e secondo molti "figlio del consumismo", bisogna fare un salto indietro di ben 100 anni. Era infatti il 1924 quando la lobby delle lampadine, detta “Cartello di Phoebus”, decise di comune accordo di immettere sul mercato delle lampadine a incandescenza che avessero una vita prestabilita di 1000 ore. Lo scopo era quello di dare un nuovo impulso alle vendite, che già 5 anni prima della Grande depressione cominciavano ad avere dei cali importanti. Di lì a qualche anno, e cioè nel 1932, venne coniato il termine in uso ancora oggi, cioè “obsolescenza programmata”, allorché Bernard London, mediatore immobiliare, propose di imporla per legge alle imprese, così da spingere gli americani ad acquistare di più e a salvare il maggior numero di posti di lavoro possibile.
Lo studio della Commissione europea
Dagli anni Ottanta in poi, sviluppandosi uno schema sociale e culturale dedito al consumismo, si è arrivati al problema dello smaltimento di enormi masse di circuiti elettrici e di prodotti di difficile riutilizzo, con conseguenze devastanti per l'ambiente. In tale ottica, si inserisce uno studio voluto dalla Commissione europea, secondo il quale il 77% dei cittadini dell'UE preferisce la riparazione all'acquisto di nuovi beni. Un risultato incoraggiante, figlio anche di politiche di sensibilizzazione al tema della circolarità, e che si allontana dalla nota affermazione del sociologo inglese Colin Campbell, che negli anni Ottanta sosteneva che le persone preferivano comprare un prodotto nuovo e non ripararlo, per sentire il piacere della novità e l'appagamento momentaneo che l'acquisto del prodotto tecnologicamente più avanzato donava loro.
Il boom del ricondizionato
Altro fenomeno che si sta sviluppando negli ultimi tempi, dopo quello del consumismo sfrenato degli scorsi decenni, e che si colloca a metà fra l'acquisto di nuovi prodotti e la riparazione dei vecchi, è quello della rigenerazione. In particolare, riguardo ad esempio gli
s martphone, secondo uno studio condotto da IDC, nel 2022 sono stati spediti 282 milioni di smartphone ricondizionati, in aumento dell'11,5% rispetto ai 253,4 milioni del 2021. Stando alle stime della società di ricerca, nel 2026 si arriverà ai 413,3 milioni di cellulari ricondizionati. Trattandosi di uno dei prodotti più “consumati”, e con la vita più breve fra i vari device in commercio, sia per un tema di moda che di continui aggiornamenti di sistemi operativi e di applicazioni, si tratta di un dato significativo, anche perché le varie componenti degli smartphone sono di difficile e costoso recupero, e dunque tale fenomeno sta impattando positivamente sui rifiuti tecnologici, che pure restano un problema tutt'altro che in fase di risoluzione.Il diritto alla riparazione
Un altro duro colpo alla vendita di nuovi prodotti è stato dato nelle scorse settimane dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea, della Direttiva 2024/1799, dai più conosciuta come “direttiva sul diritto alla riparazione”. Dopo l'approvazione da parte del Parlamento europeo ad aprile, e il successivo via libera dato dal Consiglio dell'Unione Europea il 30 maggio, si è finalmente arrivati a riconoscere un diritto che dovrebbe anche calmierare i prezzi delle riparazioni, e costringere le aziende produttrici a rendere meno complicato l'iter del ricorso alla garanzia, che spesso causa la scelta di abbandonare un device la cui riparazione viene percepita come antieconomica, per ricorrere all'acquisto del nuovo prodotto, più performante ma anche molto più costoso.