Domenica 6 Ottobre 2024

Pozzo della Cava e quella sfida vinta: "Con la cultura si fa impresa"

Una famiglia di Orvieto trasforma un antico pozzo in attrazione turistica gestita con successo, senza fondi pubblici. Un esempio di impresa culturale privata.

Pozzo della Cava e quella sfida vinta: "Con la cultura si fa impresa"

Una famiglia di Orvieto trasforma un antico pozzo in attrazione turistica gestita con successo, senza fondi pubblici. Un esempio di impresa culturale privata.

SI PARLA molto dell’impegno e del coinvolgimento dei privati nella tutela e nella salvaguardia dell’immenso patrimonio dei beni culturali italiani. Ad Orvieto esiste una famiglia che ne ha fatto una missione, o meglio, una professione. Il Pozzo della Cava, riscoperto 40 anni fa da Tersilio Sciarra sotto la sua trattoria nel quartiere medievale, è oggi gestito dal figlio Marco (nella foto sopra). Questa è la storia di una impresa famigliare di successo che è nata da una intuizione e da molto coraggio fino a trasformare un bene culturale privato in una attrazione di primo piano della città, accanto a quelli unversalmente noti come il duomo ed il Pozzo di San Patrizio.

La vostra esperienza dimostra che fare impresa con la cultura è possibile, come è nata l’idea e come è iniziato tutto?

"È nato tutto per caso, quando mio padre decise di acquistare la casa accanto alla nostra e i cui sotterranei erano in comunicazione con quelli dell’osteria di mio nonno, che intanto mio padre aveva trasformato in una trattoria. Sapeva dal proprietario precedente della presenza di un buco molto profondo e si è messo alla ricerca di quello che poteva essere un pericolo. Così nel dicembre del 1984 ha riscoperto il Pozzo della Cava dopo oltre 300 anni dalla sua chiusura al pubblico. Allora si vedevano solo i primi 24 metri, dato che gli ultimi 12 erano occupati da calcinacci e rifiuti. All’inizio non ci saremmo immaginati né di aver riscoperto il più antico pozzo di Orvieto, né che di lì a qualche lustro avremmo riportato alla luce anche tutti gli ambienti circostanti che costituiscono il complesso archeologico attuale".

Possiamo provare a ripercorrere le tappe principali di questo percorso di riscoperta?

"Per quanto si possano sintetizzare una ventina di anni di lavori, seppur non continui, diciamo che dopo il ritrovamento del pozzo, nella lunga attesa per ottenere le autorizzazioni per lo svuotamento, i miei avevano riaperto il passaggio che collegava gli scantinati della casa del pozzo con quelli della nostra abitazione. Nel frattempo avevamo contattato storici e archeologi per cercare di interpretare i vari ritrovamenti dei sotterranei: la prima fornace, i butti, la cisterna etrusca... Svuotato il pozzo nel ‘96, abbiamo proseguito nel recupero degli altri sotterranei di nostra proprietà, riportando alla luce altri resti, come la muffola rinascimentale e diversi scavi etruschi. Così fino al 2004, quando, dopo aver aperto al pubblico la grande grotta delle tombe rupestri, abbiamo ripristinato l’arco rinascimentale su via della Cava, che aveva costituito l’originale accesso al pozzo. In quella occasione abbiamo anche fatto realizzare, su disegno dell’architetto Davanzo, un puteale contemporaneo a memoria dell’originale vera cinquecentesca del Pozzo della Cava".

Tutto questo a vostre spese. Come mai avete deciso di non accedere a fondi o richiedere sovvenzioni?

"All’inizio non è stata proprio una scelta, quanto l’unica via che ci sembrasse percorribile. Nello smarrimento totale dell’inesperienza e dell’imperizia, infatti, ci siamo rivolti alla soprintendenza archeologica, che si pronunciò in maniera molto netta: non c’erano soldi e non ci sarebbero stati per parecchi anni, quindi bisognava scegliere tra fare i lavori a spese nostre o accettare un esproprio che si preannunciava eterno. Optammo per la prima di queste possibilità, anche perché a pochi metri da noi avevamo un esempio non troppo felice di ’esproprio temporaneo’: il cantiere trentennale del muro etrusco.Più tardi abbiamo presentato delle domande e dei progetti per sovvenzioni con fondi europei o simili, ma o finivano i soldi prima di arrivare a noi, o ci veniva direttamente sconsigliato di consegnare i moduli. Si è offerto anche qualche sponsor privato di prestigio, ma avevamo già speso così tanto (almeno per le nostre tasche) che tanto valeva non dividere il merito con qualcun altro".

Quando nasce l’idea di fare davvero impresa con i sotterranei e quando ne hai preso le redini?

"Le redini, se vogliamo dire così, nel 2007, quando mio padre mi ha donato l’azienda di famiglia, ma è stato un passaggio puramente formale. È stato nel 1996, con l’introduzione del biglietto per la visita al pozzo e ai primi sotterranei, che abbiamo davvero iniziato la nostra avventura nella gestione dei beni culturali. Allora abbiamo iniziato una sorta di percorso inverso: mentre i musei e i parchi archeologici già esistenti si stavano dotando di bookshop e caffetterie, noi rimpiccolivamo l’attività di ristorazione per fare spazio ai ritrovamenti archeologici".

C’è stato anche un percorso per acquisire nuove competenze e professionalità o è bastata l’esperienza sul campo?

"Quando abbiamo messo il biglietto di ingresso stavo agli ultimi esami prima della laurea in matematica, non proprio affine alla nostra attività, così mi sono subito iscritto alla specializzazione in turismo culturale della Lumsa, intanto avevo iniziato il praticantato per l’iscrizione all’albo dei giornalisti. Il Pozzo della Cava è stata la prima struttura museale del territorio ad avere un proprio ufficio stampa e questo contava molto, specie quando la promozione pubblica arrivava piuttosto sporadicamente. E poi tutta una serie di corsi di marketing, turismo, salute, cucina, arte, artigianato, fotografia, gestione museale, giornalismo e comunicazione. Non ultimo il corso teorico-pratico di ceramica artistica orvietana, dato che produciamo noi stessi le ceramiche del bookshop".