Mercoledì 24 Aprile 2024

Nasce il Comitato per il Made in Italy nel mondo: i punti di forza e debolezza dell'Italia

Qualità, accuretazza e gusto sono universalmente riconosciuti. Burocrazia e tasse ci penalizzano

Paola Veglio

Paola Veglio

L’importanza strategica che l’eccellenza produttiva italiana riveste per l’economia del paese è confermata dall’istituzione del Comitato per il Made in Italy nel mondo (CIMIM), co-presieduto dai ministri Urso e Tajani, e finalizzato a fornire indirizzi strategici utili alle imprese nostrane nella loro crescita nei mercati esteri. 

Il Made in Italy è ampiamente apprezzato a livello globale e non solo nei tre settori - Fashion, Food and Furniture - che tradizionalmente vengono associati all’eccellenza italiana. Il rapporto di Confindustria “Esportare la dolce vita” lo conferma: a livello globale, riconoscere che un prodotto sia Made in Italy ne determina una percezione di maggior valore rispetto ai prodotti di altri Paesi. 

Il Made in Italy racchiude in sé concetti chiave come garanzia sulla qualità dei materiali, accuratezza delle lavorazioni, design e riconoscibilità della manifattura italiana.

Burocrazia, costo del lavoro e tassazione tra i più alti d’Europa, uniti a una concorrenza spregiudicata, rappresentano però un mix erosivo che ogni giorno il tessuto imprenditoriale italiano, costituito per oltre il 90% da microimprese con un massimo di 10 addetti, deve fronteggiare per continuare a essere competitivo.

La forza del Made in Italy da sola non basta, sono necessarie misure a sostegno delle aziende italiane, per scongiurare che possano guardare con interesse ai vicini paesi, veri e propri “paradisi della tassazione agevolata”, con un grave danno per l’occupazione del paese, ma anche per la salvaguardia di un know how produttivo secolare e d’inestimabile valore.  In ogni settore produttivo il grido di protesta è lo stesso: lo Stato deve fare di più per permettere alle PMI di essere competitive e crescere. 

Roberto Impero, Ceo di SMA Road Safety, eccellenza italiana a livello internazionale nella produzione di dispositivi stradali salvavita, come le barriere laterali e gli attenuatori d’urto, non nasconde la propria preoccupazione “la concorrenza straniera nel nostro settore ha dato vita a un dumping aggressivo che sta erodendo sempre più la competitività dei produttori nazionali. È indispensabile che le istituzioni prevedano controlli molto più severi sui prodotti esteri immessi nel nostro mercato, sia sulla solidità della stessa azienda produttrice. In Italia non è prevista una procedura di omologazione delle barriere stradali, è sufficiente la marcatura CE per autorizzarne vendita e installazione. Belgio, Norvegia, Irlanda, Germania, Medio Oriente o USA richiedono procedure di controllo severissime, che possono durare più di 12 mesi, prima che il dispositivo venga immesso nell'elenco dei prodotti approvati.

Costi di manodopera, normative sulla sostenibilità e la sicurezza dei lavoratori, contribuzione previdenziale, per non parlare del carico fiscale, sono un unicum del nostro paese che pesa sulla competitività internazionale e nazionale. Nel nostro settore esiste anche un problema sociale e legale da non sottovalutare, legato all’affidabilità del produttore straniero. Cosa succede e chi risponde se queste barriere straniere, preposte a salvare vite umane, non dovessero funzionare? In che modo si potrà chiamare in causa il produttore che ha sede in Turchia, Albania o Estremo Oriente?”

Nel mondo dell’automazione, Paola Veglio, a capo di Brovind Vibratori S.p.A. che realizza macchinari vibranti per la produzione industriale, racconta come “grazie alla particolare ricerca tecnologica dei nostri macchinari riusciamo a tutelarci dalla concorrenza estera, sempre più agguerrita. Il vero problema è che le istituzioni sono anni luce lontano dalle aziende, soprattutto le Pmi. Dovrebbero premiarne gli investimenti che hanno ricadute positive anche sul territorio. A volte mi chiedo come in Italia possano circolare certi materiali e come abbiano superato i controlli, che in teoria dovrebbero essere gli stessi che vengono imposti alle nostre macchine quando vengono esportate. Finché esistono queste disparità sarà sempre più difficile ottenere che le aziende “sane ed etiche” competano in maniera equa. Norme oggettive che impongano parametri su materiali, sicurezza, ambiente e tutela del personale, sarebbero di grande aiuto, anche se ammetto non sia semplice parametrizzare questi concetti”.

Sul fronte delle energie rinnovabili, mercato in forte crescita, la questione della competitività tra aziende italiane e straniere richiede di essere presa in esame con urgenza, “la concorrenza, soprattutto asiatica, è soverchiante per il fotovoltaico Made in Italy – afferma Daniele Iudicone, Ceo di IMC Holding che da oltre un decennio si occupa di rinnovabili, fotovoltaico in primis -. In particolare la manodopera asiatica, dal costo estremamente più basso, rende molto più complessa la produzione sul suolo italiano. Inserendo incentivi e sgravi fiscali per i lavoratori del settore si potrebbe rendere la lavorazione più concorrenziale con l'estero. Non andrebbero messi sullo stesso piano i prodotti europei e quelli lavorati in zone in cui la tutela della manodopera è perlopiù assente”. 

Alessandro Gatti, imprenditore lombardo che ha creato con maisonFire, una nuova nicchia nel mercato del design, quella dei caminetti senza canna fumaria, racconta che “nel nostro settore, la produzione di biocamini e di focolari elettrici è concentrata in Gran Bretagna, Irlanda e Cina. Ciò che ci permette di competere è importare la tecnologia del camino dal mondo anglosassone e rivestirla con un design più affine al gusto italiano, che piace molto anche oltre confine. Le continue normative da parte dell’Europa, ma anche delle stesse regioni, al pari delle auto e dell’efficienza energetica degli edifici, colpiscono duramente i produttori di caminetti e stufe. Nei paesi con regolamentazioni meno puntigliose, le aziende straniere possono operare più liberamente sia in patria che nel resto del mondo, ma devono avere prodotti davvero performanti per vendere in Italia. Da un punto di vista dell’export, invece, ci sono svariati paesi che possono contare su un aiuto istituzionale efficace: penso alla presenza nelle ambasciate di veri e propri uffici commerciali per ricerche di mercato e contatti.  Dall’ultima volta che ho scritto per assistenza a una nostra ambasciata, senza ottenere risposta, sono passati anni, mentre vengo contattato periodicamente da ambasciate straniere che ricercano partner in Italia. Altro aspetto che ci penalizza è senza dubbio legato ai processi produttivi: le nostre fabbriche sono costantemente controllare su temi sacrosanti, dalla sicurezza, alle verniciature, ai ritmi di lavoro, fino alle autorizzazioni che arrivano dopo anni. Tanti paesi stranieri, nostri competitor nei mercati globali, hanno molta meno burocrazia con cui scontrarsi e sono assistiti da apparati statali più efficienti.  I cosiddetti lacci e lacciuoli che ingessano l’economia italiana, da sempre”.

Da un punto di vista normativo, spiega l’Avvocato Fabio Maggesi, fondatore dello studio MepLaw, che garantisce ovunque nel mondo assistenza legale in lingua italiana ai connazionali che gestiscono business all’estero, “è il Made in Italy, per sua natura, ad aver difficoltà d’esportazione: in quanto prodotto d’eccellenza, risulta non replicabile e standardizzabile e si scontra per questo con svariate limitazioni imposte dai diversi paesi stranieri. A questo si aggiunge l’imposizione fiscale italiana che lascia poco spazio alle aziende per investimenti oltre confine, e che invece permetterebbero, soprattutto alle PMI, di diversificare e aumentare il profitto world wide. Lo stato italiano, a tutela del Made in Italy, dovrebbe imporre migliori linee comunicative per distinguere il prodotto “italiano” dal Fake (o dal fac-simile). Spesso è proprio la mancanza di informazioni a non permettere di comprendere, al di fuori dei confini nazionali, le differenze tra ciò che è e ciò che vorrebbe essere, con conseguenti ingenti danni al nostro sistema produttivo e al prodotto realmente Made in Italy, in termini di sicurezza, salute e perdita di posti di lavoro. Ciò che si auspica è quindi certamente una maggiore qualificazione comunicativa del “prodotto 100% italiano” ed una migliore politica legata all’agevolazione fiscale per chi ha intenzione di stabilire una propria filiera oltre i confini nazionali”. 

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