Sabato 17 Maggio 2025
TOMMASO STRAMBI
Cronaca

Sicurezza, nelle smart city ci penseranno i semafori

L’architetto Carlo Ratti disegna il futuro al Mit: dal riconoscimento facciale alle case verdi

Toronto, sarà una smart city disegnata da Google

Boston, 2 settembre 2019 - Marciapiedi in grado di allargarsi o restringersi a seconda delle condizioni del traffico. Il tutto per fluidificare il transito delle auto. Migliorare la viabilità e anche la qualità della vita dei cittadini. Ma anche edifici green, con parchi e giardini sui tetti, capaci di rigenerare la qualità dell’aria e abbattere l’inquinamento. E, poi, lampioni dotati di sensori in grado di modulare l’intensità della luce in funzione del passaggio dei pedoni o degli automobilisti. Ma, anche, in grado di effettuare il riconoscimento facciale e ‘garantire’ la sicurezza cittadina. Quando George Orwell scrisse 1984 aveva immaginato un ‘Grande Fratello’ che conquistava il potere, ancorato com’era alle ideologie del secolo scorso. Non poteva certo prevedere che 70 anni dopo (il libro venne pubblicato nel 1949) un ‘Grande Fratello’ avrebbe governato le città così come, invece, hanno preconizzato gli sceneggiatori di Person of Interest, fortunata serie televisiva americana. Ma come saranno davvero le città del futuro? Miglioreranno la qualità della vita? Saremo sempre più ‘spiati’? E chi gestirà tutti i nostri dati? Carlo Ratti, 48 anni, architetto e ingegnere piemontese (ha fondato lo studio CRA a Torino e New York), da anni insegna al Mit- Massachusetts Institute of Technology di Boston (dirige il Senseable City Lab). Una delle più importanti università di ricerca del mondo. Dove il futuro è di casa.

Carlo Ratti
Carlo Ratti

La rivista Esquire l’ha inserita tra i Best & Brightest, Forbes tra i Names You Need to Know e Wired nella lista delle ‘50 persone che cambieranno il mondo’. Ma chi è, davvero, Carlo Ratti?  "Non so se stia a me rispondere… e poi mai dare troppo peso a quello che scrivono i giornalisti! (ride, davanti a una tazza di caffè italiano). Tuttavia gli inglesi direbbero che porto tre cappelli. Uno è il Senseable CityLab, il laboratorio di ricerca che dirigo al MIT di Boston; un altro è CRA -Carlo Ratti Associati, lo studio di architettura e design che ha sede a Torino e New York; un terzo cappello riguarda il mondo delle start up, come Makr Shakr, Scribit o Superpedestrian. Sono tre sguardi sulla stessa realtà, che permettono di valutare da più angolazioni le trasformazioni della città, proponendo nuove soluzioni. Ricerca, progetto e prodotto sono così sviluppati con una visione comune, come tre livelli di lettura". 

Architetto, ingegnere o visionario? Oppure tutti e tre insieme? "Ne scelgo una quarta, presa da una bella scena del film Jules et Jim di Truffaut: “curioso di professione”. Il mestiere più bello del mondo".

 Quando ha capito che voleva fare l’ingegnere? E l’architetto?  “In famiglia è sempre stata presente l’influenza di mio nonno, Angelo Frisa, che nel Novecento ha lavorato come ingegnere strutturale realizzando grandi opere in Italia e all’estero – dallo Stadio Olimpico di Roma allo stabilimento Fiat di Mirafiori. Io ho iniziato i miei studi prima a Torino, poi in Francia e in Inghilterra: al Politecnico di Torino, all’École des Ponts di Parigi, poi  all’Università di Cambridge. Mi sono occupato di ingegneria, di architettura, ma sempre di più ho avuto il desiderio di esplorare nuovi ambiti: ad esempio l’informatica, la fisica e il legame con l’ambiente della città.Dopo un po’ di anni, i vari punti sparsi hanno finalmente cominciato ad allinearsi!”.

La sua base è Torino, ma il suo ufficio è il mondo. Qual è stata la molla che l’ha portata a spalancare le finestre oltre la Mole? "Parafrasando Carlo Mollino, mi viene da dire che per essere autenticamente globale bisogna prima essere locale… o persino provinciale! Da questo punti di vista Torino è stata un ottimo punto di partenza".

Così sono nati anche i suoi progetti internazionali? "Abbiamo sempre ragionato in ottica internazionale. Ancora oggi le sedi di Torino, che contano oltre cento persone, fatturano in tutto il mondo. Così come da tutto il mondo arrivano le persone che lavorano a Torino".

Com’è arrivato al Mit? "Per caso. Alla fine del PhD sono approdato al MIT con una borsa Fulbright. Pochi anni dopo, nel 2004 ho fondato il Senseable City Laboratory, per mettere a punto una nuova idea di integrazione della tecnologia con la città, in cui informatica e urbanistica sfumano i confini tra scienze esatte e scienze sociali. In qualche modo si tratta di un esercizio di immaginazione, per andare a studiare come l'interazione senza precedenti tra digitale e fisico possa influire sul modo in cui progettiamo e viviamo nelle nostre città".

Cos’è esattamente una smart city? “Un nuovo mondo alla convergenza di atomi e bits. Oggi lo spazio è sempre più permeato di dati digitali. Internet è entrato nell’ambiente fisico, diventando “Internet delle Cose” e creando nuove connessioni tra oggetti e persone”.

Solo auto  a guida autonoma, strade modulari e sistemi di illuminazione 'intelligenti', o anche verde, parchi e giardini capaci di generare risparmio energetico? "La chiave sta nel non considerare la tecnologia come fine a se stessa, ma come strumento a nostra disposizione per aumentare le possibilità creative dell’uomo e migliorare la qualità delle città e dell’ambiente. In questo senso, credo che non esista affatto una contrapposizione tra tecnologia e natura: anzi, stiamo assistendo a una convergenza dei due universi". 

Lei al termine smart city preferisce quello di 'città sensibili'. Non è solo una questione linguistica. Cosa significa nella progettazione delle città del futuro? “La parola Senseable in inglese ha un doppio significato: 'in grado di sentire'; 'sensibile'. Preferiamo usare il termine “Senseable City” - invece di Smart City - perché mette l'umano al centro: i nostri progetti sono prima di tutto focalizzati sulle persone più che sulla tecnologia. La tecnologia non è il fine ultimo, ma lo strumento al servizio di un’idea”.

La diffusione dei big data e dell’internet delle cose può incidere, migliorandola rispetto all’oggi, sulla sicurezza urbana? "Il concetto di sicurezza urbana è da sempre presente nel discorso dell’architettura e dell’urbanistica. Oltre mezzo secolo fa, la ricercatrice e attivista newyorchese Jane Jacobs propose per la prima volta il termine “occhi sulla strada”, per spiegare che le vie più vissute, in particolare alla dimensione di quartiere, tendono spesso a essere le più sicure, per una sorta di sorveglianza diffusa e decentralizzata. Oggi, con le nuove tecnologie, potremmo parlare di una nuova dimensione di sicurezza, che potremmo definire quella degli “occhi della città”, che passa da sensori e intelligenza artificiale, e dal più piccolo spazio delle nostre tasche, in cui teniamo i nostri smartphone".

E come si declina in concreto? “La sicurezza urbana al tempo degli “eyes of the city” può esistere se rimaniamo liberi di muoverci nella città senza essere esposti ad un uso improprio dei dati e delle informazioni sui nostri movimenti. Questo è possibile soltanto se alla base dell’utilizzo dei dati c’è un approccio etico. Su questi temi stiamo preparando una grande biennale, in Cina, nella città di Shenzhen, che aprirà alla fine del 2019”.

Ma questo apre il fronte rischio cybersicurezza? "Il rischio esiste, ma troveremo anche soluzioni - come sempre con le nuove tecnologie. Potrebbe sembrare un paradosso, ma un'opzione, potrebbe essere quella di promuovere tra la popolazione l'adozione diffusa delle pratiche dell’hacking “buono”: quel “white hat” che punta a identificare i difetti delle reti digitali per renderle più sicure da attacchi di malintenzionati. Insomma, puntare su sistemi aperti e distribuiti per rendere il nostro mondo più sicuro".

Telefonini, tablet, commercio online hanno cambiato radicalmente i comportamenti sociali. Quali ‘rivoluzioni’ future intravede? "Se parliamo di commercio, una domanda che viene da farsi è se continueranno a esistere i negozi fisici. Bene, da questo punto di vista io credo che assisteremo a due sviluppi paralleli: da un lato si intensificheranno i servizi di acquisto online anche per prodotti di uso routinario, dal più banale detersivo ai libri da leggere, d’altro lato migliorerà la nostra esperienza nei negozi fisici. La comodità dell’acquisto digitale non potrà mai del tutto sostituire il piacere del negozio fisico e il rituale dell’acquisto di persona. Un po’ come accade in una scena di un bel romanzo di Italo Calvino, nella quale il protagonista, il signor Palomar, entra in un negozio di formaggi a Parigi e all’improvviso, davanti a tanta ricchezza e varietà ed espressione di tradizioni e culture culinarie, si sente come se si trovasse in un museo. In quanto progettisti, l'aspetto dell'esperienza ci interessa molto, perché implica la creazione di nuovi spazi non soltanto di vendita ma anche di incontro sociale". 

Lei insegna in America,  lì hanno sede i principali player dell’information technology, dopo aver perso la siderurgia e la chimica, l’Italia può ancora avere un ruolo di primo piano nel settore dell’IT o anche  qui ha perso terreno? "Per l’Italia, tra i punti di riferimento nel settore manifatturiero in Europa, l’Industria 4.0 può essere una grande occasione  di sviluppo. Le nostre città, strutturate su un’identità storica molto forte, non si sono mai del tutto adattate alle tecnologie invasive e pesanti del secolo scorso. Le nuove tecnologie, al contrario, sono invisibili e leggere e possono trovare spazio nel contesto italiano, migliorando la qualità delle città tanto per la produzione quanto per la qualità del consumo. Qui subentra la cultura creativa italiana che permette di trasformare l’evanescenza dell’informatica in un’azione pratica che abbia degli effetti diretti e virtuosi sulla vita di ogni giorno".

Nel campo della robotica, invece, può essere protagonista? "Le competenze ci sono. Due nostre aziende, Makr Shakr e Scribit, si occupano di robotica. Makr Shakr in particolare è diventata in pochi anni leader mondiale nei bar robotizzati e poche settimane fa ha aperto un bar con vista su piazza del Duomo a Milano: speriamo diventi uno dei luoghi dell’estate per scoprire la robotica".

Come vede l’Italia tra 50 anni? "Dipende dalle nostre scelte. Come diceva Alan Kay, “il modo migliore per predire il futuro è inventarlo!".

Quale consiglio dà a un giovane che sta facendo le scuole superiori per prepararsi al futuro? "Restituirei lo stesso consiglio che ho ricevuto da quella scena di Jules et Jim di cui parlavo prima: “Viaggi, scriva, traduca, impari a vivere dovunque, e cominci subito. L'avvenire è dei curiosi di professione".