Roma, 28 settembre 2024 – L’ultimo, diciassette anni, ha conosciuto la sua vittima on line. Erano sedicenni gli assassini di Thomas Christopher Luciani, per i quali secondo i magistrati l’unico intento era “uccidere e causare sofferenza”. E sedici anni aveva il baby killer di Giovanbattista Cutolo, Giogiò, ammazzato senza motivo. La vita desacralizzata, la morte ridotta a evento banale. E nessuna riflessione sulle conseguenze. Come se anche il gesto più atroce fosse rimediabile. Come in un film. La psicologa Anna Oliverio Ferraris rimprovera Roberto Saviano quando dice che i giovani vanno informati sul corredo di violenze della mafia: “Perché insistere? Sanno già tutto: che il cattivo ha la meglio, che si diventa un grande boss ammazzando. L’eroe negativo eccita e porta a identificarsi. A quell’età si lasciano attraversare dalle immagini forti e non tutti hanno accanto un adulto in grado di spiegare”.
Mafia a parte, non aiuta la crescita sentire tutti i giorni che oggi in questa guerra sono morti in 50, nell’altra anche di più.
“Non aiuta mai spersonalizzare la morte. Gli spettacoli dove è reversibile, o la realtà che cancella il dolore dei sopravvissuti, svuotano di significato un evento sacro. Questa generazione è transitata nell’adolescenza guardando i video dei tagliatori di teste, diventando indifferente all’orrore. A sedici anni gli ormoni sessuali cambiano le emozioni, la corteccia prefrontale, quella parte di cervello che blocca gli impulsi, non è ancora del tutto formata. Senza guida si può arrivare a essere disinibiti in modo sciagurato”.
Per sentirsi forti? Per dimostrare che cosa?
“Spesso per acquisire meriti di fronte ai compagni o a quel pubblico che non si nega a nessuno. Uccidere, lanciarsi a tutta velocità in autostrada, lanciarsi dai ponti. È bisogno di consenso, tipico dell’età. Giulio Cesare nel De Bello Gallico raccontava la sfida dei soldatini romani per dimostrarsi coraggiosi: si attaccavano con una corda all’albero, la bravura consisteva nel tagliarla in tempo. Anche Tolstoj in Guerra e Pace narrava le bravate dei giovani nobili in bilico sulla finestra ubriachi fradici. Il sedicenne che oggi ammazza a coltellate un coetaneo segue lo stesso impulso, ma ha molti più stimoli”.
Fragilità, senso di inadeguatezza, la certezza di non avere niente da perdere in un mondo che traballa. È anche questo?
“Può darsi, ma ricordo che nel ‘900 ci sono state due guerre disastrose di fila e il senso di precarietà non è una nostra esclusiva. Oggi però esiste un mondo virtuale parallelo e certe idee vengono da lì. Chi vede morire il gatto di casa piange ma non ci crede, pensa che il micio tornerà perché dall’altra parte funziona così. È un continuo oscillare fra la morte nella realtà e quella televisiva o social. Le immagini dei video scorrono senza soluzione di continuità, cancellano i tempi naturali. Tutto si appiattisce”.
Anche il senso di responsabilità.
“Questi ragazzini con il coltello non capiscono fino a che punto possono fare male. La loro aggressività esplode a casaccio, non sanno uccidere. Motivo per cui spesso un colpo solo non basta e sono costretti a infierire sulla vittima agonizzante. Dal mondo virtuale arriva di tutto: spunti interessanti ma anche violenza, porno, porno violento contro le donne. Sono cose che lasciano una traccia. C’è chi ha gli incubi di notte e chi va oltre”.